La mia classe di Daniele Gaglianone

                                                



Buona sera professore, bravo a sentire queste cose, sono contento”


“Mi sento a casa quando sono a casa, ma quando sono fuori, non mi sento a casa, mi sento sempre straniero”


Se questa legge si prende il tuo diritto a vivere, tu che fai?

 - “Io ho paura di essere malato” 
-  “Io ho paura di voi, però ho il coraggio di venire qui tutti i giorni”



Un vero e proprio docu-film, una classe di veri immigrati, di persone che provengono dall'Africa, dall'Est europeo, dall'Asia, dal Sudamerica e che si stanno preparando per “andare in onda”. Infatti l'incipit di "La mia classe" mostra la troupe cinematografica che prepara il set nel quartiere romano di Pigneto. Da qui prende il via la narrazione. Ognuno si racconta. C'è chi viene dal Maghreb, chi da Tirana, chi dalle Filippine, volti veri, storie crude, persone che scappano via in cerca di fortuna, fuggono da povertà, da guerre, da persecuzioni politiche e religiose. E Daniele Gaglianone ci sbatte in faccia la realtà che vivono gli extracomunitari nel nostro Paese, la volontà di ricostruirsi, che non è fatta di pietismo, ma al contrario di sorrisi, strette di mano, malinconia, paura, è fatta della dolcezza di Amhet: “La casa mia è lontana, serve ultimo pullman prendere, ci vediamo dopo”. Così Valerio Mastandrea si trasforma in un maestro che cerca di insegnare loro la nostra lingua. Vera è anche la recitazione, semplicemente perchè non è per loro un “andare in scena” e a fare da trait d'union, la magistrale interpretazione di Mastandrea quanto di più vicino c'è ad un cinema-realtà, che si tiene fuori dalla nevrastenia, dall'isteria di un certo tipo di cinema, ecco perchè la critica lo apprezza; ecco perchè lo stimiamo per la sua serietà, mista a paura di esserci e a un'incredibile umanità, quella caratteristica che mette dentro i film che interpreta e che qui viene dimostrata dai sorrisini spontanei che non riesce a trattenere, cercando però di mostrare una certa parvenza di durezza. Questi ragazzi fanno sorridere e divertono anche, senza fare battute scritte spesso trite e ritrite. Divertenti le telefonate simulate: uno fa finta di cercare lavoro, l'altro fa finta di essere il datore. Molto simpatica anche la scena per le scale che il regista fa “rifare” al suo pupillo Mastandrea (con lui ha girato anche “Ruggine” - 2011) in modo più... sforzatamente sorridente. E gli improvvisati “attori” si fanno amare subito, anche quando raccontano le loro vere esperienze di vita, la loro mortificazione quando non viene rinnovato il permesso di soggiorno. 
Non mancano le lacrime, i groppi in gola, perchè ognuno è chiamato, via via che passano i giorni e le lezioni, a spiegare cosa ha portato dal proprio Paese: un amuleto, una foto, un ricordo, una brutale esperienza, una cicatrice, anche simbolica... cose che per noi sono spesso prive di valore. Il regista è un innovatore in tutti i sensi. Innanzitutto per come “tratta” questo film, per le scene davanti e dietro la mdp; innovatore nella storia o, meglio, nelle storie senza copione; poche sono infatti, le scene in cui il regista guida gli “attori”, soprattutto in alcune fasi finali e solo per farci comprendere (non solo mostrare) la drammaticità della loro quotidianità. Ma sottile è un passaggio che Gaglianone fa: accomuna il dolore degli immigrati a quello della malattia del loro insegnante. Un dolore diverso, ma pur sempre intenso. E questo li fa sentire parte di una sola famiglia. Talvolta neanche loro stessi sanno se quel dolore è reale o se invece appartiene al film. Di una cosa però sono certi: sanno bene che la loro casa è solo nel loro Paese. Cosa provassimo noi in un Paese lontano dai nostri affetti, in un Paese di cui non conosciamo la lingua, che ha una cultura diversa dalla nostra? Ascoltiamo con discrezione e a testa bassa – così come ci ha insegnato Tahar Ben Jelloun – le storie di Bassirou Ballde, Mamon Bhuiyan, Gregorio Cabral, Jessica Canahuire Laura, Metin Celik, Pedro Savio De Andrade, Ahmet Gohtas, Benabdallha Oufa, Shadi Ramadan, Easther Sam, Shujan Shahjalal, Lyudmyla Temchenko,Moussa Toure, Issa Tunkara e Nazim Uddin. Quella di un ragazzo che è felice quando vede la sua fidanzata che compra magliette e scarpe, quando nel mondo Occidentale si protesta nel vedere la propria compagna fare shopping. Queste sono le stesse storie di tanti emigranti (così vogliamo meglio definirli), molti dei quali si trovano nel nostro Paese, alcuni trattati bene, altri purtroppo molto meno. E noi, grazie a Gaglianone, grazie alla “classe” e a Valerio Mastandrea, ci sentiamo meno soli... La semplice bellezza (la stessa che si è guadagnata qualche giorno fa un Oscar) ci mostra la forza di una malinconica canzone, “L'Autostrada” di Daniele Silvestri, come tema in classe... Nel finale una cruda realtà riemerge: un ragazzo perde il permesso di soggiorno facendo cadere tutto il set nello sconforto... e l'ombra del CIE pende sulle loro teste non come rifugio, ma come orrore che si aggiunge ad orrore. “E comunque quello che facciamo non serve a un cazzo” dice Mastandrea... forse si invece, serve a cambiare prospettiva, serve ad educare le coscienze, a renderci tutti apolidi in una terra che non ci appartiene, ma che dovrebbe essere semplicemente di tutti... profondo, maledettamente intenso, commovente, il monologo finale del maestro/attore Valerio Mastandrea che qui vogliamo riproporre per intero, davanti alla sua solitaria classe, perchè è il vero senso non solo del film, ma anche della storia di quei volti smarriti, di milioni di emigranti, dei nostri governanti: 
“Sono in una città straniera e sto camminando lungo un fiume, piove, piove sempre. In giro non c'è nessuno. Ad un certo punto vedo qualcosa che mi viene incontro, lentamente lo riconosco è un cane, un cane magro, bagnato; quando mi vede rallenta, rallento anch'io. Gli faccio una carezza, due, forse tre. Poi mi alzo e continuo a camminare. Lu viene con me, mi accompagna a casa. Lo guardo e non mi sta guardando, cammina con me, come se fosse il mio cane. Arriviamo davanti al portone, che non è un portone, non c'è una porta, è un arco, poi dentro c'è una scala e a metà di questa scala c'è un cancello con delle sbarre. Mi fermo, lo guardo e lui mi guarda come a dire: “Beh, andiamo”. Non può venire con me, non lo posso portare. La padrona di casa è stata chiara: niente animali in casa! Allora cammino, apro il cancello, lo richiudo. Lui fa qualche scalino e si accuccia sull'ultimo accanto al cancello. Allora mi siedo anch'io e rimaniamo così, uno da una parte e uno dall'altra. Passano 5-10 minuti, non lo so, mi alzo e faccio per andare a casa e lui mi vede andare via e inizia a gridare, a urlare, non sta abbaiando, sta strillando. Poi inizia a scagliarsi con violenza contro il cancello e mi fa paura, io ho paura e se non ci fosse quel cancello lui mi salterebbe addosso e mi azzannerebbe. Scappo verso casa e spero che il cane vada via e invece quando mi chiudo la porta alle spalle lo sento ancora gridare, gridare che sono un traditore”.

...la gente che passa ci guarda e prosegue veloce, ci osserva e prosegue veloce magari saluta, ma sempre prosegue veloce se almeno si vedesse l'autostrada ci porterebbe senz'altro a una città oppure proseguire ovunque vada meglio... meglio che qua.... a volte succede qualcosa di dolce e fatale, come svegliarsi e trovare la neve o come quel giorno che lei mi sorrise ma senza voltarsi e fuggire, vederla venirmi vicino fu quasi morire, trovare per caso il destino e non sapere che dire... e intanto volevo sparire... [ D. S. ]



“Molte persone bevono pipì, anche io ho bevuto pipì perchè non c'è acqua, non c'è niente”


“Io non ho famiglia, io ho tutti morto”


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