NiggaRadio - FolkBluesTechno'N'Roll... e altre musiche primitive per domani


NiggaRadio tornano con un nuovo disco, dal titolo sì lungo ma che sintetizza bene il lavoro: “FolkBluesTechno'N'Roll... e altre musiche primitive per domani” (Dcave Records). Un album registrato e mixato da Daniele Grasso che risulta solido, compatto, che affonda le radici nel blues che viene da lontano e sembra più vicino che mai. Perchè le culture e le tradizioni del Sud del mondo parlano una lingua che seppur diversa, si comprende, si fa coraggio, si abbraccia. Ne sa qualcosa la Sicilia, terra dei nostri, che con il loro dialetto sono schietti e trafiggono, in italiano probabilmente brani del genere non avrebbero avuto la stessa intensità. Testi pesanti e politici, ma anche spirituali e “pasionari”. Vanessa Pappalardo ci ricorda Meg, non tanto nella voce, no, ma quanto nella comunicabilità. 
I suoi compagni di viaggio, Andrea Soggiu, Daniele Grasso, Peppe Scalia sono preziosi: donano quell'aurea folk etnica del Mare Nostrum, il blues delle chitarre slide in stato di grazia perchè non sono ruffiane né old school, la tecnho dei suoni minimal senza risultare freddi, il rock delle elettriche che frustano e spesso parlano, l'uso dell'analogico che dà una sensazione di precarietà. E raccontano tante storie. Storie di uomini e donne che vivono in un Paese che non è più il loro, costretti ad andare via per sopravvivere, costretti ad accogliere per non lasciare morire. Un Paese di contraddizioni come i sentimenti di un popolo che si lamenta ma che non lotta, che corre dietro a falsi miti e valori ormai perduti. I NiggaRadio avevano già convinto, col precedente lavoro, parte della critica, approdando a Festival dei Lavoratori e a Targhe Tenco. Questa è ancora la strada giusta e pezzi come “A Fera”, “Signuri” e “Dimmi unni si” sono una conferma. Non poteva mancare la collaborazione col conterraneo Cesare Basile e con Alessandro Deidda.

“'U me dirittu”: suona la sirena per gli operai, con chitarre blues distorte all'inverosimile, da fare male, con riff sostenuti e avvincenti: “E' u me dirittu e u vogghiu ora... è il tuo diritto non essere schiavo anche se non sai di esserlo già stato. E' un tuo diritto poter lavorare senza paura di farlo e morire...”

“Messinregola”: slide e riff, un proseguo del precedente, dove le batterie secche si presentano nude e crude, così come il testo. Al contrario la voce che invece ha troppo eco: “Eo sugnu irregolare, ca giro senza cascu... è poi a messa in regola, a regola è cantare...” un punto a favore della precarietà.

“Rema”: a passo felpato questo blues, con una ritmica suadente che resta tale ma tanto sono le parole a fungere da calamita: “U tempu sta passannu conta sulu come e quannu, u tempu ca m'arresta è picca e nun m'abbasta. Rema contro sta corrente, rema o nun sinni fa nenti...” metafora per cercare un appiglio in una società priva di principi, che ci rende abulici. Allora è un bisogno avere un motivo per cui vivere. “Le foto ca nun fici, l'amuri ca nun nesi...” e non è tempo di rimpianti... “o nun si 'ni fa nenti”...

“'U Balcuni ‘i l’incantu”: suoni rudimentali si mischiano a quelli digitali. Ha un clima inizialmente asettico questo singolo, che dopo la prima strofa riesce ad uscirne con tanto di riff di elettrica, molto etnica così come la voce di Vanessa Pappalardo che riesce a sviscerare e ad essere più nitida e pulita lasciandosi apprezzare meglio, soprattutto perchè canta in siciliano: “Unni vai cori mè resta ca, senza 'e tia né respiro né paci. Unni si occhi mè, vita mia, sulu cibo ri l'alma, me luci...”. "U balcuni 'i l'incantu" e "U muru du chiantu" sono i due volti che dovrebbe avere una persona che ci sostiene nel bene e nel male senza porsi troppe domande.

“Cantò”: cori lontani, o che arrivano da lontano. Terra e mare. Cuore. Ecco cosa unisce l'Africa e questa parte del Mediterraneo. Sicilia terra di accoglienza, sicuramente anche di contraddizioni, ma fertile. Il sound è un cordone ombelicale con i brani precedenti, di slide e ritmica possente. Poi nella seconda parte le elettriche grezze e l'assolo che non è assolutamente ammiccante, vestono il pezzo di rock: “Bello o no, sto posto cà mi toccò...”. Spesso siamo noi che apparteniamo a certi luoghi...

“'A fera”: i “vuci” della “genti”, a cui spesso si accompagna “l'abbanniata” del venditore che espone la sua roba. I mercati del centro-sud Italia sono un melting pot di volti, cose, sapori... una base rap molto ipnotica e nient'altro, sound cadenzato ed una chitarra tagliente che balla e canta tra riff ed assoli. Sì l'elettrica canta ed ha tanto da dire, si prende e ci prende in giro, facendo il verso a “Bandiera Rossa”...

“Senza”: un'altra base molto minimal, debole per il vero, la voce torna effettata e distorta, cupa, le elettriche entrano in scena come nelle vecchie registrazioni analogiche, ecco perchè il consiglio è quello di ascoltare tutto il lavoro con delle buone cuffie, per non disperdere i suoni: “Allura senti a mia, senza ca ti voti vattinni, senza ca ti voti vai, senza ca ci pensi vattinni...” un uomo che maltratta una donna non merita di essere amato, ossequiato. Ancora una volta sono le elettriche a fare un buon lavoro, a graffiare...

“Nananà”: “U to munno è una scatula china di cosi chi mi vò vinniri...”, il materialismo ci divora perchè siamo insoddisfatti. Ma consumismo e capitalismo vanno a braccetto: “Non ci casco più, non ne voglio più, travagghi pi campare, nun campi pi accattare”. "Sembra una canzone ma è una rivoluzione" fatta di riff a go go che piacciono e c'è poco da fare: togliere gli artifici rivela e svela il piacere di ascoltare un prodotto “nature”. Sta lì d'altronde la vera capacità.

“'U pullman pà Germania”: marranzani aprono la strada a rumori di martelli pneumatici ed elettriche che feriscono: “E' ti piace u blues, ora tu canti e tu chiangi stu blues... e nessuno sa il mio nome e nessuno sa il mio nome”. La storia si ripete, oggi siamo di nuovo costretti a costruirci un futuro altrove, emigrando. Noi terre di emigranti e di migranti accomunati tutti da “valigi di caittuni”.

“Signuri”: quanto vicino può essere la cultura dei neri d'America? Le slide ci danno una riposta: più vicina di quanto si possa pensare per dolori, per fame, rabbia e deportazioni... una preghiera che qui viene recitata in dialetto siculo, che tanto u “signuri” è uno per tutti, c'è solo un Dio che ha diversi nomi. Vanessa chiama e si impone: “Signuri n'te mano unn'à resta chiù nenti, Signuri n'to cori speranza nun tengo, Signuri ti chiamo ma tu unn'arrispunni, Signuri mi senti, Signuri mi senti...”

“Dimmi unni si”: sul finale questa piccola perla, delicata, che arriva in punta di piedi, con l'acustica che fa quasi fatica a suonare perchè malinconica e l'armonica timida dona quel mood folk non invasivo. Sullo sfondo rumori di città frenetiche che sembrano lontane ma sono solo dietro l'angolo: “... e a vita sinni va... lo so lo so, siamo trasandati e storti ma finchè nè resterà un briciolo di divina follia saremo salvi, saremo salvi...” e si alza e va via la vita, gli affetti, vanno via gli amici...


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