Fratelli Calafuria - Musica rovinata



I più colti e raffinati critici musicali o sociologi della musica che per un verso o per un altro si mettessero all’ascolto di Musica rovinata , il nuovo album dei  Fratelli Calafuria , potrebbero cominciare questa recensione affermando che il trio milanese fa della “destrutturazione” e del “non sense” le proprie tecniche fondamentali di composizione creativa. Tutto ciò ha una duplice valenza. Prendere di mira e ridicolizzare l’attuale forma canzone (musica e parole) in quanto espressione musicale popolare di facile consumo, ingiustamente abusata e maltrattata dall’attuale industria discografica italiana e internazionale. Quella musica rovinata appunto, frutto dell’assenza di idee e di ripetitività, quella routine musicale standardizzata che omologa l’ascolto e lo appiattisce. E di contro rovinarla intenzionalmente, distruggerla, senza appiattirla, come atto di liberazione volontaria. Verrebbe insomma da paragonarli a ciò che fecero in arte i fautori del Dadaismo. In fondo potremmo definire la musica dei Fratelli Calafuria “Musica rock dadaista”, stravagante e ironica. 
Sì, perché anche questa volta i Fratelli Calufuria hanno saputo sputtanare e deridere al tempo stesso la musica “usa e getta”, elevata agli onori delle cronache delle riviste patinate con il solito motto “il nuovo che avanza”, e tutti coloro che abbiano l’ardire di reputarla una forma artistica seria.
Quasi fosse una missione, i fratellini sgangherati del rock hanno saputo creare dieci caricature ben fatte e congegnate di cui essi stessi sono artefici e vittime. Ed questo il bello,e probabilmente anche il risultato più eclatante. 
Un meccanismo degenerato nel quale l’unica certezza è che siamo al cospetto di musicisti impazziti, scellerati, capaci di sorprendere, far riflettere, far ridere e non capire se stiano facendo sul serio o stiano prendendo tutti per il … !
Bizzarri se non addirittura clowneschi, drammaticamente veri e reali fino a diventare surreali, irriverenti e dissacratori, manipolano la musica e la trasformano in un ibrido che serve a rendere bene la loro idea di musica rovinata.  

La prima traccia del disco è Il pezzo giallo. Entra la batteria come un martello pneumatico, ossessiva. Poi la chitarra, graffiante e dissonante. Un pezzo in pieno stile punk rock semplice e diretto che parla di uno strano pezzo giallo. Un doppio senso forse. 
Quando dice “A volte improvviso e le cose vanno bene, oggi non mi viene, e sto di qua con in mano della carta millimetrata, a sistemare una cosa che non ho calcolata, la grafica la musica rovinata e la vita..”  sembrerebbe riferito al modo odierno di fare canzoni, studiate apposta per vendere. Ma il pezzo giallo avanza, è un tormento “questo è il famoso pezzo giallo che io mi tengo stretto, e me lo metto in camera da letto, di fianco alla mia collezione di farfalle nello stomaco, se vieni a casa mia te lo vomito davanti e dietro, tutti quanti a gridare al miracolo, e lo conservo intatto in tutto il suo splendore, come un gioiello anche se è giallo” 
A cosa si potrà mai riferire? Ma certo! Come non pensarci prima. 
Parla del disco d’oro. Il premio che viene assegnato ai cantanti con la “C” maiuscola, decretandone quindi il successo, dopo aver venduto miglia di copie del loro album  “…tutto al sapore di niente, bolle di sapone al niente, occhio a non metterlo nell’occhio,tutto ti brucia ma poi non è niente!”.

E il giallo ritorna ancora una volta nella seconda traccia dal titolo Fare Casino. Un pout pourrì micidiale, con richiami e citazioni che vi invitiamo ad individuare dentro il testo,  da cui “…viene fuori un casino ma poi si sistema, lo coloro di giallo e coloro che sanno,
apprezzeranno che è arrivato il minuto di fare casino…”
Un puzzle di chitarre “fuzzose” e ritmiche forsennate per dettarci una ricetta, la stessa che serve per ottenere il pezzo giallo:
prima di tutto me lo sono registrato, secondo di tutto io metto l’eleganza…”  ma inaspettato sorge un dilemma, la musica non va avanti “…e adesso che cazzo faccio, una parte con gli armonici,
si non starebbe male, si difatti sta bene, e quindi stiamo tutti bene
e così tutto si risolve grazie agli armonici e.. “e allora non bisogna preoccuparsi per il futuro, ma solo concentrarsi a dire le cose giuste, che non si può mai sapere come vanno a finire certe cose, bisogna fare casino

Si passa così, con un sorrisino un po’ isterico alla traccia che da il nome all’album Musica rovinata. Ritornano gli armonici che aprono, metallici e dissonanti, e il fruscio di una radio che sembra annunciare Vasco Rossi, quando si srotola una base di basso e batteria su cui si evolvono, suoni, rumori densi, elettronici, che sostengono il testo. 
Esilarante, a volte incomprensibile, ma pieno di significato quando ripete “non so che cosa dire in questa canzone di merda…la musica rovinata allora è l’unica che va suonata…” . 

Ma alle sorprese non c’è mai fine! Ed ecco che esplode il “Cabum Cabum” di Disco Tropical . Il pezzo ha inizialmente un incedere funky, un ritmo dance che rimanda la mente a un bel party su una spiaggia dei tropici ed ecco che ritorna il rock su “..colla collana di fiori e il mojito, non posso andare al colloquio con la barba incolta, piuttosto vado colla Barbara ai tropici..”. 
Il tempo per una breve parodia sulle note di “ma che musica, che musica…che musica tropical..” e riparte la parodia vera e propria alla “Mojito genration” che si esemplifica bene quando dice “un marlborino in taxi ultimo grido, mangio il giornale rileggo la banana, le occhiaie colorate in motorino, e una collana di cocktail, malinconia carogna vade retro, io se ti becco ti straccio il motorino,
basta che non viene chi sai tu”. Ancora un istante e siamo dentro ad un rap sconvolto e farsesco ad opera di Dargen D’Amico. Il pezzo si chiude con il ritorno al rock e alle chitarre distorte. 


Giusto il tempo per riprendere il contatto con la realtà ed eccoci dentro 
Di Testa, la quinta traccia dell’album. Il pezzo ci riporta dentro le ambientazioni più noise in stile lofi. La struttura ritorna ad essere più definita. Ma il forte sono e rimangono i testi. E in questo caso il ritornello è un gioco di parole ben architettato “perchè se c’è una cosa che mi manda in testa, è quando c’è il mal di testa, e quando c’è il mal di testa, è necessario che ti tagli la testa”, che si chiude con un finale delirante “ci siamo presi il marciapiede in testa, non ci giurerei, ma però va bene!”.

Stesse sensazioni, steso delirio sul pezzo successivo dal titolo semplicissimo ed insidioso allo stesso tempo Bello…perché abbiamo capito che dai Fratelli Calafuria dobbiamo aspettarci di tutto. Ed infatti il “bello” in questione si riferisce a ciò che si potrebbe rompere compiendo mosse azzardate:
La mattina a parole sono pieno di tosse,più le scegli e sbagli più diventano rosse, e se sbadigli ti vengono mosse..

E basta poco per renderci conto che:
 “che con la vita figa che faccio, oggi forse viene meglio se taccio, ma da domani ho deciso che spacco, speriamo di non rompere niente di bello”. 

Giusto per restare sul pezzo giallo!

Ma ecco affiorare i Pulsantoni “per cambiare le cose con gli effetti speciali,
è difficile ma è così”. Il brano ha il sapore di un pezzo beat made in England su cui si spalma un testo brevissimo in cui però ogni parola viene fissata nella memoria con effetti echo a cui si sommano suoni elettronici. 

Segue Torno su. L’ottava traccia dell’album. In stile neo-surf rock, ci racconta di una controversa storia in cui i protagonisti sembrano vessati dal giradischi poiché:
Quando c’è di mezzo il giradischi, sarebbe meglio non correre di rischi”. 
Infatti a causa del mezzo fonico sembrerebbe essere scoppiata una lite.. 
“le questioni si fanno accese in un attimo, torno su, ti faccio un solco sulla faccia, poi ci metto un pezzo di vetro, poi mi scrivo gli occhi sulla schiena,
così ci leggo all’indietro, ma tu non piangere per niente, che un modo c’è e poi si recupera“ 
…che si può risolvere solamente tornando su a prendere i dischi.

Una volta che siamo stati su bisogna necessariamente andare giù. E’ infatti questo il ritornello quasi assillante di Loretta, nono brano. Prima avevamo a che fare con i dischi e il giradischi. Adesso motivo del contendere è una cassetta “che si sente solo da una parte, io mi sento invece solo dappertutto,
ed ho bisogno di sapere che ci sei, perchè sennò io vado giù”. Se in precedenza il giradischi è stato motivo di litigi adesso la cassetta ci serve a ricordare tristemente una ragazza del passato. E lo stile del pezzo è quello giusto, in chiave pop/r&b, con la voce appena sussurrata che ci ripete 
ogni testo è un pretesto per parlare d’amore,ogni testa invece ne è priva, e secondo te perchè scriviamo registriamo e ci facciamo le foto, e cambiamo di nome alle canzoni…”.

Sappiamo che purtroppo tutto ha un limite, tutto ha una sua conclusione anche questo disco che si chiude con Il Fattodeicdincantati. Devastante. Il giradischi, le cassette e ora i cd che s’incantano. Costruito proprio su una base che si incanta senza soluzione di continuità, e di frammenti di testo ripetuti, intercambiati ed estenuanti, che alla fine sembrano dire sempre la stessa cosa  “Mi sono messo in questo fatto di cantare sui cd incantati per farli diventare cantati”. Surrealismo in musica che ci lascia ancora una volta spiazzati quando ci accorgiamo che c’è pure una ghost track. 

Che volete farci! Sono i Fratelli Calafuria.

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