Waines - Sto


…e tre! E’ uscito da poco il terzo lavoro discografico dei Waines intitolato per l’appunto STO, preceduto da STU(2009) e dall’EP A Controversial Earl Playng (2007)
Precisiamo subito, se qualcuno se lo stesse ancora chiedendo, che sia il nome della band sia i nomi degli album sono presi a prestito dallo slang siculo/anglo/americano dei sobborghi di una Palermo più che mai effervescente quando si tratta appunto di dar vita a storpiature e nomignoli divertenti.
Effervescente infondo come la scena musicale alternativa che ad oggi si attesta tra le più floride del panorama musicale italiano. E i Waines, attivi dal 2005, hanno fatto da apripista a questo movimento che annovera tra le band più affermate Il Pan del Diavolo, i Dimartino e gli Hank.

L’uscita di “STO” insomma ci conferma che le cose procedono per il verso giusto, che qualcosa si muove.
Qualcosa di fresco e divertente, sanguigno e concreto, ispirato e fuori dagli schemi, sta affiorando portando a galla tutto il substrato culturale della downtown.
E quale miglior mezzo se non la musica, e in particolare l’hard-rock-blues, per mostrarci questo scenario?
Certo, il rock e il blues non sono propriamente dei fenomeni musicali nostrani, ma i Waines sembrano non risentirne applicando benissimo il teorema: “non suono rock italiano ma rock in Italia”.
Ed è così che ci fanno assaporare questo gusto per le steel guitars suonate a colpi di bottleneck (o slide) lungo le undici tracce del disco, alla conquista di quei paesaggi che riportano alla mente quei gli U.S.A. tirati fuori dalle pellicole della generazione “on the road” alla Easy Rider per poi buttarci dentro uno strip club di Las Vegas come nelle migliori tv-series anni settanta.
Insomma, ci fanno quasi dimenticare delle loro, delle nostre, origini mediterranee.
Tre elementi. Due chitarre distorte, acidissime, effettate, dissacranti, e una batteria che sprigiona potenza applicata a moduli ritmici devastanti, a tratti dance… che anche il più impedito non potrebbe fare a meno di saltare.
Eppure c’è ancora qualcos’altro.  E come se i White Stripes, o i primi Wolf Mother fossero entrati in rotta di collisione con i maggiori esponenti del Big Beat Britannico come i Chemical Brothers, i Fat Boy Slim o i Prodigy. Risultato?  I Waines!
Le sonorità rockeggianti dello slide che scivola sulla tastiera si sposano perfettamente con un sound elettronico e sperimentale che sembra provenire da synth o campionatori dei quali, è bene ribadirlo, non vi è la ben che minima traccia.
E a proposito di tracce, il disco si apre con una travolgente  Turn it on che ci riporta dentro le ambientazioni  e le sonorità di “STU” verso il quale rimane coerente, ma con maggiore spinta e un’apertura sempre più decisa verso l’altra anima dei Waines, quella dimensione elettro-dance di cui si parlava poc’anzi.
La conferma sembra provenire da Time Machine che scarica addosso all’ascoltatore un bel tempo pari in levare sostenuto da chitarre ruggenti su cui aleggia un cantato dinamico che incornicia il brano…e già ti ritrovi ad ondeggiare.
Con Afrix abbiamo la sensazione che il ritmo cali, ma è solo un’illusione. L’intro acustico ci tradisce e ben presto le chitarre elettriche tornano a fare il loro dovere. Il brano è molto più cantato rispetto ai precedenti, con un bel ritornello che fa da ponte a dei soli vertiginosi e glissati in pieno stile slide guitar.
L’atmosfera è già calda e abbiamo il tempo per goderci Round Glasses. Il brano indugia verso la psichedelia e verso tempi decisamente meno frenetici, un cantato incessante ed improvvise evoluzioni chitarristiche che gli fanno da supporto.
Ma il tempo è scaduto. Esplode Inner Wiew, una cavalcata elettrica di un minuto e mezzo, totalmente strumentale, che squarcia il sereno.  Le chitarre s’infiammano, la batteria è un martello pneumatico. Appena il tempo per un solo, e stop!
E’ la volta dell’ hard blues acido, massiccio e dirompente di The Pot, pieno di groove e di classiche svisate slide fibrillanti che inondano il brano regalandoci un finale strumentale che, poco a poco va scemando, cala d’intensità, macchiettato qui e là di trilli e dissonanze, distendendosi su di un tappeto sonoro arpeggiato, come preludio di ciò che sta per arrivare.
Con un arpeggio country/blues infatti si apre la traccia più estatica e visionaria dell’album, la nostalgica Morning Comes che ci riporta alla mente “Going to California” di zeppeliniana memoria. Ma è giusto un soffio di vento, un battito d’ali.
E siamo a Birds.  La tensione sale, cresce, assorbe il tepore che la traccia precedente aveva lasciato e ci scaraventa nuovamente tra le fiamme di una dance floor, tra fiumi di wiskhy e ballerine sexy, “to forget you, my dear!”.
Harsh Days ha invece il sapore di una ballata country/rock portata alle estreme conseguenze, in cui il ritmo percussivo torna a farla da padrone.
Si passa così a Keep it Fast e ricompaiono i suoni che avevamo incontrato all’inizio dell’album, carichi di quell’inconfondibile groove alla Waines.
Si chiude dunque il cerchio, ma prima di lasciarci c’è un ultimo sussulto, l’ultima traccia 1876 Reprise, undivertissement strumentale che fissa nelle nostre orecchie il sound del disco e quasi ci invita a riprendere l’ascolto da capo… nell’attesa di gustarceli live.

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