This must be the place di Paolo Sorrentino




La casa, intesa come luogo dell’anima, come approdo, nel mezzo la ricerca, il viaggio interiore, una nuova consapevolezza/rinascita, la crescita definitiva, la fine dei tormenti e un nuovo inizio... "perchè il problema è che passiamo troppo tempo velocemente dall'età in cui diciamo farò così a quella in cui diremo è andata così".
In un mondo "dove nessuno lavora più, ma tutti fanno qualcosa d'artistico e con l’America sulla sfondo, Sorrentino dirige un intenso road movie appunto interiore, che scava dentro le macerie di un Sean Penn, eterno bambino, che ha le sembianze di Robert Smith, ma spesso si atteggia, specie nella prima parte ad un Ozzy Osbourne uscito dalla serie di Mtv, in gran spolvero, che porta a spasso con movenze incerte, il suo carrello/fardello, ora della spesa, ora da viaggio, ma sempre stracolmo di scheletri e fantasmi, dentro se stesso, con la sua stessa maschera a portarne i segni.
Giocato abilmente sulla metafora del viaggio e sulla massima che facendosi carico dei problemi altrui, riusciremo a risolvere i nostri, senza nemmeno accorgercene, come in un immenso labirinto, dove “io è un altro”, Sorrentino muove la mdp con lentezza, per quasi penetrare “il di dentro” dei personaggi, i primi piani lirici di Sean Penn stanno li a dimostrarlo, ma anche i tagli sugli occhi o gli accostamenti improvvisi con gli oggetti, che siano macchine, telefoni o ancora le riprese panoramiche... non ha importanza, resta e regna la padronanza di una regia sapiente, funzionale, di gusto e classe al quale il nostro ci ha abituato nel corso degli anni, abilmente sorretta e impreziosita dalla fotografia di Luca Bigazzi e da una colonna sonora che fa rima ineluttabilmente con David Byrne, che appare anche in un gustoso cameo, oltre a prestare il titolo al film stesso, del resto come ricorda lo stesso Cheyenne in una delle scene più divertenti del film, This must be the place è stata scritta dai Talking Heads non dagli Arcade Fire.
Il film ha poi una sceneggiatura scritta con Umberto Contarello, scorrevole anche se si prende le sue dovute pause, per rendere al meglio l’introspezione dei personaggi, molto ben caratterizzati e facenti tutti parte dell’oliato meccanismo a cui accennavamo poc’anzi, dove spiccano i dialoghi, sempre pregni di significato e sotto testi, carichi di frasi-tormentoni "Qualcosa mi ha disturbato, non so bene cosa, ma qualcosa mi ha disturbato" ma anche la ripetizione dei gesti, è il caso del continuo soffiare sul ciuffo di Cheyenne, che ci annuncia quasi di fare attenzione, che ci sarà un importante snodo narrativo, un passaggio da tenere a mente... mentre inevitabilmente ci troviamo di fronte alla "prima sigaretta" che preannuncia lo splendido finale: "tra tutti i vizi che mi sono permesso in gioventù non c'è mai stato quello di fumare - Pechè sei ancora un bambino e il bambino non sente bisogno di fumare"... a testimonianza dell’entrata “in una ipotetica età adulta”, dove il bambino invecchiato può abbracciare finalmente quell’uomo che è diventato.

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