Anonymus di Roland Emmerich



“Dalla fantascienza alla fantaletteratura”, Roland Emmerich non si fa mancare niente ma solo apparentemente cambia temi e registro, infatti in questo “Anonymus”, raccoglie i suoi thopos attraverso la parabola “leggendaria” Shakespeariana, materiale che di certo non è proprio estraneo in fatto di tragedie, drammi, intrighi, catastrofi e che ben si presta dunque alle classiche tematiche del regista.
Emmerich in questo film stavolta, tende in un certo qual modo quasi a “umanizzare il divino o l’elemento sovrannaturale che dir si voglia” e fa si che “il creatore”, sia una sorta di “deus ex machina terreno” per così dire, rispetto ai suoi film precedenti... operazione questa, sebbene non riuscita del tutto, che è comunque doveroso risaltare, visto che potrebbe essere addirittura una buona idea di tesi di laurea, per chiunque volesse approfondire la sua filmografia.
Se in Shakespeare e la sua arte è infatti racchiusa la più grande storia delle vicissitudini umane, Emmerich ha pensato bene di rispolverare come pretesto narrativo, una delle “teorie” che hanno affascinato da sempre studiosi e non, ovvero che in realtà Shakespeare non fosse altro che il paravento, la maschera pubblica, dove si nascondeva un nobile, amante della poesia e dell’arte a tal punto da “far inscenare” le sue immense opere a un attoruncolo di poco valore, perchè a quel tempo il teatro, era cosa assai disdicevole per la nobiltà.
Da questo, che rimane ed è bene sottolinearlo un mero espediente filmico, visto che si da per assodato che è questa “la storia ufficiale”, quanto meno per la pellicola, prende il via, tra spiragli di luce e cupe, oscure “rappresentazioni”, la fotografia di Anna Foerster,  infatti tende a seminare un senso di inquietudine per tutta la durata della narrazione, un affresco storico che prova a far rivivere appunto “la tragedia” insita, nella vita stessa, come nelle migliori opere Shakespeariane, che la regia segue,  quasi perdendosi “nel buio” consapevolmente... facendo altresì aderire la vicenda narrata alle opere stesse via via portate in scena, cosa questa che ai fini della narrazione risulta sicuramente un valore aggiunto... constatandone la perfetta aderenza, dando al film un substrato, una coerenza di fondo, che ne diventa pian piano la sua cifra stilistica.
La sceneggiatura di John Orloff, per far ciò, per dare ovvero densità narrativa, intensità lirica, si impantana però spesso tra i raccordi temporali, specie nella prima parte, risultando più efficace una volta fattosi (lo spettatore) un quadro più chiaro della situazione e aver capito “le connessioni” che l’autore vuole dare.
Menzionando l’ottima prova attoriale tra i quali spicca l’eterna Vanessa Redgrave, concludiamo dicendo che il risultato finale è discreto, niente di più, ma neanche niente di meno, che non è poco, anche se è lecito sottolineare l’eccessiva durata, tipica tra l’altro dei drammi in costume, che pregiudica la scorrevolezza narrativa.  

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