Shame di Steve McQuenn



Dramma a tesi, diretto magistralmente da Steve McQueen, sceneggiato da Abi Morgan  e fotografato ancor meglio da Sean Bobbitt... tra solitudini, morbosità, paure, silenzi, egoismi, tristezze e "malattia"... il film si snoda per poco più di novanta minuti,  lento e pesante come un macigno, ma assolutamente come deve essere necessariamente... viste le immagini e il tema trattato... 
Non per tutti dunque, ma un film da vedere, perchè tralasciando l’ottima messa in scena generale, ivi compresa la più che convincente prova attoriale, è un lavoro che innanzi tutto fa riflettere e non smette fotogramma per fotogramma, di  rilasciare intensità narrativa ed emotiva.
E’ un duro scavarsi dentro, un cammino interiore vero e proprio, che Michael  Fassbender deve compiere per uscire dal suo autismo di sentimenti, dove l’anima, qualora ci fossa mai stata, è scomparsa... sostituita dalla mercificazione del sesso e dalla ripetizione dell’atto fine a se stesso.
Le tappe che scandiscono questo suo percorso sono facilmente identificabili, a cominciare dai suoi alter ego sulla scena, dal suo malessere stesso scoperchiato e reso identità filmica, dai suoi specchi nel racconto, ovvero il capo (James Badge Dale ) e la sorella (Carey Mulligan), entrambi tra l’altro in perfetta antitesi,  come a ribadire lo scontro interno che avviene all’interno del protagonista: dietro l’ipocrisia del primo e il bisogno d’amore della seconda, si cela infatti il vero volto del nostro o meglio lui stesso si renderà conto della maschera che porta... che paradossalmente comunica la sua stessa rinuncia alla “vita” ovvero al rischiare, al mettersi in gioco, a soffrire, perchè no... e allora c’è bisogno di correre, nella notte più buia, con le luci sfocate dietro, di prendersi le botte... per rinsavire... dall’incomunicabilità in sostanza della maschera stessa, che ha deciso di far scegliere gli altri per se, di far che gli eventi prendano il sopravvento... esemplare in tal senso la scena del cameriere al ristorante.
La “trappola” che il nostro nel corso della narrazione tenta di fuggire, insomma, non è di certo quella dell’arrivo della sorella che limita i suoi spazi, ma quella che inconsciamente o meno si è costruito nel corso degli anni, rifiutando appunto “la vita”.

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