Appino - Il Testamento



In questo esordio solista Appino dimentica lo sberleffo tipico degli Zen Circus, quello sguardo disilluso ma comunque fiero della realtà nel suo disgregarsi, per dare sfogo a un'amarezza che è anche estetica nella scelta dei suoni, negli arrangiamenti, nell'apporto nella sezione ritmica del Teatro degli Orrori, che non è sfiducia è constatazione che non si può cambiare, che i corsi e i ricorsi storici hanno un loro perchè... e allora non c'è ironia che tenga, che venga buona a ritrovare un certo spirito guascone e irriverente. La soluzione non è ovviamente rassegnarsi, ma forti delle difficoltà imparare a scegliere, a vincere innanzi tutto la battaglia irrisolta contro i propri fantasmi o specchi che dir si voglia, imparare insomma a conoscersi veramente e affrontare il mondo spietato che ci circonda con quanto meno la consapevolezza del se, rovesciando le carte in tavola con lo sguardo innocente del bambino e farsi amici i cattivi di turno, il buio, i mostri sotto al letto, provarci almeno.
Appino lo fa e in questo "Il testamento" getta ogni maschera al di là del Pò e va oltre lo specchio, accetta il confronto con se stesso, con le sue radici e con quello che diventerà, sputando fuori tutto quello che ha dentro. Il risultato è intenso, viscerale, emozionale... è ha una sua profonda coerenza di base, dove non tutto è messo a fuoco ottimamente e forse qualche brano non è propriamente sviluppato in maniera adeguata ma appare necessario comunque all'humus dell'opera in se:

"Il testamento":" ho scelto tutto quello che volevo fare  ed ho pagato ben contento di pagare, perché la scelta in fondo è l'unica cosa che rende questa vita almeno dignitosa" un solo di violino (Rodrigo D'Erasmo) sinistro apre questo album, "war is over risuona", come a dire "La grande guerra, Monicelli"... è in primis la violenza testuale a colpire, a ribadire l'importanza di "scegliere"... nel suo dipanarsi strumentale ha un incedere da marcetta sbilenca che si insinua lentamente e cresce con l'intensità e forza delle parole e la potenza della sezione ritmica e della chitarra elettrica:
"ho scelto tutto, tutto tranne il mio dolore, lo ammazzo io e non c'è niente da capire"

"Che il lupo cattivo vegli su di te": "la gente sparla, s’indigna e singhiozza, la gente infama, tradisce e poi ride  in gran tranquillità"... il primo singolo estratto è un pò il manifesto sonoro dell'album dove si avverte l'impronta di Giulio Ragno Favero al basso e Franz Valente alla batteria, una ninna nanna oscura e distorta (che si apre alla melodia) com'è la percezione della realtà... in fondo chi può dire chi siano veramente i buoni?

"Passaporto": "tutto questo tempo speso a lavorare poi quanto altro ne rimane" si abbassano i toni e l'ironia si tinge di amarezza e di un pò di nostalgia per un andamento da ballad evocativa divisa da un ottimo intermezzo di intreccio chitarristico con l'armonica che fa pure essa capolino nella parte finale 

"Lo specchio dell'anima": io contro io, un mood marziale e ipnotico a tessere le trame "dello scontro" con un ritornello diretto e senza fronzoli, sembra di assistere quasi a uno strano miscuglio Sick Tamburo/Timoria del periodo Speed ball:
"ed imputare tutto sempre e solo agli altri che non riescono quasi mai ad appagarti, il dito medio che facevi giratelo contro, che la differenza è tutta dentro a quello specchio,  fra la paranoia e la realtà" 

"Fuoco!": "Non sei fatto per lottare non sei nato per lottare", sembra richiamare "Nati per subire" ma fondamentalmente ribadisce che l'amore non è tutto, con un sound incisivo ed efficace che non disdegna affatto la melodia:  
"e tutto questo amore io non l’ho mai voluto, tutto questo amore io non l’ho mai vissuto, tutto questo amore non l’ho mai voluto, a tutto questo amore io non ho mai creduto" 

"La festa della liberazione": "io prego molto di più ma molto di più di chi si inginocchia e prega il soffitto"... tra ricordi, radici, provincia... è una ballad essenziale per chitarra e voce, solenne ed epica, arricchita da gli ottimi e assestati interventi strumentali, in primis l'armonica:
"quanto è brutta tutta questa campagna, la gente si lagna e nemmeno un falò , mentre al centro han rubato il senso, centrare un bersaglio è proprio quello che vorrei  come mio padre 34 anni fa, una vita ad allontanarlo  e poi diventare come lui"

"Questione d'orario": La storia di una donna che partorisce il suo bambino lontano dal paesino mentre fa ritorno dal marito tradito... "è il mare di fango in cui ci piace nuotare" ha un non so che di vintage nelle atmosfere che emana, con una parte che si apre alla melodia ed una finale "raggelata" nel pathos dell'arrivo:
"anche se lui non è più nel suo grembo  sente ancora il cordone ombelicale... è normale, anormale, è normale"

"Fiume padre": "sai la noia in fondo cos'è è la certezza che tutto andrà a rotoli" un rock di stampo quasi americano specie nell'impronta dei riff ma che vive di suggestivi passaggi folk, immediato e sporco nello stesso tempo, l'arrangiamento risulta azzeccato in pieno:
"io respiro con te ma non posso respirare per te, io la vedo così scappare non ci serve a niente"

"Solo gli stronzi muoiono": ancora Monicelli cercando di farsi amico "il buio nemico"...  un andamento convulso e quasi saturo che esplode nel ritornello diretto e senza concessioni melodiche stavolta: 
"non c’è bisogno di morire per vivere sai, io non so un cazzo della vita e questo è certo perché non ho bisogno di una guerra per resistere"

"I giorni della merla" : storie di padre e figli e mostri da nascondere tra corsi e ricorsi, è una ballad venata di malinconia, eterea e sospesa:
"amore del mio amore, tuo padre è innocente... di tutto questo orrore  nessuno gli ha insegnato  a raccontare cosa ha dentro"

"Tre ponti": ritmo in levare e un mood scarno con passaggi strumentali suggestivi e retrò, con la voce che può esprimersi al meglio per un testo abbastanza triste e amaro:
"non son pugni in faccia questi ma sulla dignità"

"Godi (adesso che puoi)": "e la forchetta l'hai venduta per un pò di anfetamina non ti bastava l'alba hai voluto anche la mattina"... morbida nella sua struttura acustica e nell'arrangiamento scarno e prezioso, ironica e ancora una volta amara, Appino sforna un testo da brividi:
"tu dici godi, godi adesso che puoi e poi che succede, non si gode più o trovi la fede, incontri gesù o muori sul serio e nulla più o fai finta di niente, ma cosa vuol dire? Sono libero solo dentro al libero arbitrio, in un libero stato del mio medio dito"

"Schizofrenia": un intro da duello western fa da preludio a una botta punk che sviscera ancora il tema del rapporto di amore odio verso se stessi:
"non ascolto nessuno  perché tutte le voci mi parlan di te e di tutte le voci un urlo più forte di certo non c’è  non rimpiango niente  perché ogni rimpianto mi porta da te"

"1983": "nel silenzio assurdo del paese nuovo"... ricordi e storia fanno quasi un sunto dei temi trattanti nell'album, negli accordi ostinati della strofa cantilenante per un ritornello che è anche esso ossessivo e implode poco a poco, quasi a sancire la sconfitta:
"crescono i canali alla televisione pensi sempre meno alla rivoluzione"

Commenti

Translate