Gli
Hobocombo più che un gruppo potremmo definirlo un progetto con un marchio mica
da poco (Trovarobato), così come il loro “Moondog Mask” – ispirato al controverso
artista Thomas L. Hardin alias Moondog, il “vichingo” musicista e poeta – più
che un semplice disco è proprio un concept album. Sul fatto che Andrea Belfi
(voce e batteria), Rocco Marchi dei Mariposa (chitarra, synth e voce) e Francesca Baccolini (contrabbasso e voce) abbiano
compiuto un percorso che è culminato in questo ottimo lavoro e di difficile
composizione, non c’è nessun dubbio. Certo, non è di facile ascolto anche se le
musiche sono trascinanti in sé. La fortuna di questo album è sicuramente la
molteplicità di suoni, a volte dissonanti ma ben calibrati, che sono frutto di
tanti strumenti musicali (Boogaloops, Bull fiddle, Dayereh, fisarmonica, Eko
Tiger, Elka ek44, Glockenspiel, Nord modular, synth, Shakers, Trimba,
Xilofono), alcuni dei quali creati proprio dall’avanguardista di strada, che
donano al disco un’aurea comune di pace e di inquietudine. Questo è il motivo
per cui la scena tedesca (a cui Moondog era legato) ma anche quella parigina
amano gli Hobocombo, unito ad una mentalità nuova che vede il mondo attraverso
occhi… altri…
“Theme
and Variations”: l’incipit del disco è chiaro ad indicare, come nel titolo, di
cosa si sta parlando ed allora si inizia con un brano di Moondog con synth
massicci (sembrano davvero dei martelli pneumatici) ed un ronzio di launeddas,
un tipico strumento sardo. Ma non c’è da stupirsi del divario musicale. Alla
fine Moondog, dalla 6° Avenue di Manhattan, è stato un precursore della musica
sperimentale che ha dato l’avvio in un certo qual modo anche alla world music.
“Desert
Boogaloo”: intro rock con batteria e chitarra elettrica in prima fila e cori…
il piano zompetta tetro su uno sfondo a mò di maracas, delicato l’assolo di
tromba di Nils Ostendorf.
“East
Timor”: ancora synt e strani rumori sulle vie di Timor Est… poi un’aria magica
viene disegnata dai campionamenti, dalla voce di Francesca Baccolini e dai cori
con un tempo fuori tempo…
“Utsu”:
qui i cori rimandano alle preghiere della pioggia dei popoli afro e suoni del
Sud del Mondo si miscelano. Il contrabbasso ed il tamburo balcano così cupi,
come una minaccia improvvisa si schiantano contro il muro dell’armonia dello
steel drum. Sul finale il brano esplode come un diluvio…
“Canon
#6 vivace”: una finestra orientale sul mondo così variegato degli Hobocombo...
grazie anche allo strumento creato da Moondog, la “serpeggiante” trimba.
“Canon
# 18 adagietto”: il lezioso piano di un altro ospite d’eccezione, Simon James
Phillips, sembra voler essere più uno stacchetto che una vera e propria
canzone, di soli 51 secondi... un cammino, un passo dopo l’altro che la band ha
compiuto fino a “Moondog Mask”...
“Baltic
Dance”: slide, batteria, rumori, cori melodiosi ed i sapori dei popoli
baltici... non manca nulla in questo lavoro... ripensandoci, se il brano si spogliasse
di tutti gli orpelli con cui è stato creato, rimarrebbe un pezzo da banda di
paese...
“Response”:
la chitarra elettrica su un letto di synth, preannuncia un altro brano etero e
minimalista che rende bene ma che è fin troppo piatto. Anche qui compare la tromba di Nils
Ostendorf.
“The
Hold serge and the Flutes”: zufoli magici suonano tra i folletti in festa delle
foreste scozzesi... tra tamburelli danzanti... ci piace ricordare di quando i
Jethro Tull introdussero i flauti nelle sperimentazioni rock...
“To
a Sea Horse”: ancora il contrabbasso ed il tamburello cupi ma frenetici con un
ensemble di sonorità a tratti violenti con le chitarre tanghere, una delle
composizioni del disco più interessanti con un finale flamenco...
“Five
a reasons”: un testo già noto (di qualche secolo) incollato in questo brano
inquieto, tetro come solo il contrabbasso sa dare. Poi il piano ed il fine
glockenspiel si inseguono fino a quando la dimensione si fa sempre più oscura e
dissonante... anche questa è musica, la musica e le sonorità del mondo, il
nostro e quello che ci sarà altrove in qualche parte dell’universo... per
questo è un disco che apprezziamo da un canto e che, dall'altro, ci fa sentire
piccoli e sperduti…
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