“Sembra che tu abbia appena fottuto il nostro ragionevole
dubbio...”
Il
regista di Sliding Doors (ma anche di Johnny English), Peter Howitt,
sforna un leggero thriller, “Un ragionevole dubbio”, con, senza
alcun dubbio, un grande protagonista: Samuel L. Jackson, che però ha
molti punti deboli. Iniziamo dalla storia che prende il via con una
bambina che sta per perdersi tra la neve e che viene subito ritrovata
dalla madre. Al suo cospetto una palla, macchiata di sangue (la scena
ci verrà chiarita sul finale). Un avvocato giovane brillante, Mitch
Brockden (Dominic Cooper), padre e marito modello, si ritrova a
festeggiare la vittoria di una causa importante con alcuni colleghi
del suo ufficio. Un po’ brillo decide in un primo momento di
prendere un taxi, ma poi, vedendo vicino la sua auto dei tipi
sospetti, decide di salire a bordo e mettersi alla guida cercando di
andare il più piano possibile. Spaventatosi per un auto della
Polizia che ha spiegato le sirene proprio dietro la sua auto (non era
lui che cercava), gira per una stradina e senza volere investe un
tizio. Da lì in poi inizia il suo calvario perché Mitch commette
l’errore, per paura di essere radiato, di lasciare il ragazzo,
ancora vivo, sul ciglio della strada, prodigandosi però, di chiamare
il 911. Nel suo cammino incontrerà Clinton Davis, un uomo a cui
qualche anno prima avevano ucciso la moglie ed il figlio. Peccato che
l’uomo che Mitch investe, si vede benissimo che ha traumi che nulla
hanno a che fare con l’incidente. Peccato anche per il fatto che ci
viene subito mostrato il vero volto dell’assassino, per cui pochi
sono gli istanti di suspense che il film riesce a creare. E qui va
dato atto a Samuel Jackson dell’ottima interpretazione, la precisa
scelta di calarsi nella giusta parte. E’ lui che dona movimento, in
tutti i sensi, alla trama. Altro punto debole sono certi passaggi che
in un thriller che si rispetti dovrebbero essere colmati da piccoli
indizi che ci conducono all’assassino o quanto meno al nocciolo del
film. Qui invece questi passaggi non ci sono affatto, rischiando però
che la storia risulti mancante di qualcosa che poi nelle scene
successive vengono invece palesati. Ciò rischia solo di far
affondare la narrazione. Per il resto, tutto un gioco di vittime e
carnefici, o meglio una potenziale vittima che diventa un potenziale
carnefice, un carnefice che appare inizialmente vittima, altre
vittime che in vita erano carnefici, scatenando un vortice di
ricatti, paure e coercizioni psicologiche… ma niente più. E
pensare che il film in America è stato vietato ai minori di 16 anni
per la violenza di certe scene (solo qualche ferita, niente di più),
e per un linguaggio non adatto (solo qualche parolaccia). Non
vorremmo sindacare il sistema americano, però se un film del genere
viene vietato ai minori di 16 anni, non osiamo pensare cosa è accaduto per “The Wolf of Wall Street… o semplicemente per una serie tv come CSI.
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