Intervista con Paolo Saporiti

Paolo Saporiti


Una ricerca di se stessi, una caccia al folk colto, emozionale, che spesso si schiera, un percorso che è giunto a partorire “Paolo Saporiti”, ovvero te stesso. Di solito il primo o i primi due dischi portano il nome del cantautore (e di nomi ne possiamo fare quanti ne vogliamo) ma il tuo “Paolo Saporiti” nasce ora, dopo un lungo viaggio. Perché? Quanto c'è di te in questo lavoro, sia in musica che a parole?

In “Paolo Saporiti” come in ogni cosa io abbia fatto fino a ora, c’è tutto o quasi di me. Musica e parole, copertina e booklet, le foto. Canzoni e voce. La mia voce. Le mie voci. Un disco vale tanto quanto un libro, una fotografia in tre dimensioni, un quadro o un film meditato. Scava a fondo tra quello che provo e vivo in un determinato lasso di tempo, senza troppe mediazioni. L’omonimia giunge oggi perché soltanto ieri ho provato l’urgenza di voler dichiarare agli altri e a me stesso che questo ero e sono diventato io e che queste sono le mie origini, le mie radici, il mio DNA. Non che prima non fosse evidente la cosa a me stesso ma non ne sentivo l’urgenza. La cosa forse mi risultava implicita. Oggi invece ho avuto bisogno di dirlo ad alta voce e agli altri. Questo è il mondo da cui derivo e che mi ha permesso di diventare quello che sono, con orgoglio e allo stesso tempo paura, rabbia. Ci vuole onestà e rispetto sempre e voglia di esserci e cambiare, crescere. Non ho mai parlato soltanto delle mie “cose” belle, della bella persona che sono diventato e che vorrei essere proprio per questo ma di quello che sono con tutti i miei difetti e le mie zone d’ombra, la rabbia in primis perché in esse mi sono identificato. Credo che questo, il riconoscere le cose per quello che sono, sia l’inizio della fine, parte di un lungo processo che perseguo e dal quale mi lascio permeare in ogni attimo, emozione o situazione della vita, al fine poi di poterne scrivere o cantare e vivere meglio. La vita per me è stata sempre musica e la musica è vita.    

Con “L'ultimo Ricatto” ci hai “illuminato” nel vero senso della parola. Hai aperto una finestra sul mondo della musica italiana (non solo indipendente) che è riuscita a farsi spazio e a trovare una sua dimensione così intima, grazie alla tua vocalità. Questo cammino lo hai oggi continuato con Xabier Iriondo che sa come “sporcare” i tuoi brani. Come è nata questa collaborazione, cosa fa “uscire fuori” Iriondo dalla tua concezione di fare musica?

Il lavoro con Xabier è iniziato ormai dieci anni fa dopo la scoperta di una simpatia comune che oggi mi fa propendere per un’ipotesi di amicizia longeva e consolidata da grande stima personale e professionale, almeno da parte mia. Per via di una serie di cose (Milano è piccola alla fine) mi sono ritrovato a suonare nel suo Sound Metak, anni fa. Negozio virtuoso e purtroppo ormai soltanto virtuale di strumenti musicali e non solo. Sopravvive soltanto online e per qualche anno ha fatto da punto d’incontro per buona parte dei musicisti del sotto bosco milanese (non me ne voglia nessuno ma mi piace un poco ricordare le cose così). L’essermi unito ai validi musicisti che varcavano la soglia del suo “negozio” mi ha regalato automaticamente una convinzione e ha fatto sì che poi dalla simpatia e dall’empatia si passasse a una sentita e sincera serie di collaborazioni non ancora ultimate. Credo che ci si incontri sotto vari piani nella vita e il senso del mio collaborare con Xabier e altri amici in ambito musicale nasce proprio da questo, dalla condivisione di un punto di vista e di una volontà di serietà e unicità negli incontri che si traduce facilmente nel linguaggio musicale. Oserei parlare di una comunione di intenti e sentire che fa e segna la differenza. Io sono un giovane vecchio della musica, in rapporto a tanti colleghi, e lavorare con lui ha permesso ad alcune parti di me di uscire con maggiore convinzione e sicurezza e di sentirsi in diritto di appropriarsi di un ruolo. Xabier è un “mostro” di consapevolezza e “direzione” musicale, sa che cosa funziona e cosa no e se qualcosa è in grado di varcare la soglia dell’arte o meno, cosa di cui l’industria discografica si è svestita e dimenticata completamente.  


Partendo dalla copertina, che raffigura tuo nonno ed il tuo bisnonno, c'è tutto un recuperare le “tradizioni” le proprie radici. Un po' come Iriondo stesso ha fatto nel suo “Irrintzi”. Da dove viene Paolo Saporiti e perché è importante per te questo “recupero”.

Il mio bisnonno era un panettiere, mio nonno un chimico, mio padre un chimico che soffrì di schizofrenia, portatore ultimo di tutta una lunga serie di sofferenze ingiuste che ora vi racconto per la prima volta. Un giorno Agostino (mio bisnonno anche se poi anche mio padre portò questo bellissimo ma controverso nome) scoprì che un proprio dipendente rubava dalla cassa e lo licenziò. Quello che accadde fu che dopo un mese questi si presentò vestito da partigiano e col mitra in mano, falciando la famiglia intera, a parte mio nonno che era a casa quel giorno. Uccise la madre, il padre e il fratello. Alla fine entrò in negozio un carabiniere che fece saltare il cervello all’ex dipendente, “suicidandolo” con un colpo in bocca che gli spappolò il cranio in mille pezzi che finirono col depositarsi sulle michette in vetrina. Mio padre scrisse una poesia al riguardo e io sono portatore e testimone, volontario e involontario, di tutto questo.

Dalla sopravvivenza dell'uomo sulla Terra quindi, sei “uscito da quell'angolo” per guardarti dentro. E se quello che c'è, è quello che abbiamo ascoltato nel tuo ultimo disco, è davvero un mondo. Che parte con una “nascita” e l'incontro/scontro dei suoni ci ricorda un parto. Ma ci ricorda anche un sentimento. E' una forma d'amore/bisogno in senso lato?

Direi proprio di sì. Oggi unisco i puntini di una vita, di una crescita, la mia, e sono felice. Il percorso è lungo, la consapevolezza è dura da conquistare e scontrarsi e riuscire poi a dialogare coi propri fantasmi, è un’impresa che non tutti accettano o scelgono di compiere. Quella di Ulisse è una metafora della vita a me molto cara. Il disco parte con una nascita e finisce con una speranza e una consapevolezza: scrivere canzoni a me piace, mi piace suonarle. Tutto ruota attorno a una chitarra e alla mia voce che mi permette di comunicare con chi ha voglia di ascoltarmi e scambiare, chi c’è e chi non c’è, chi è disponibile. Cosa che mi è mancata nei primi anni della mia vita evidentemente. Gli occhi di una madre devono saper riconoscere, è uno dei pochi compiti che una persona matura deve saper affrontare. Questa è una cosa che mi preme.


Dall'eleganza di “Cenere” (ci piace molto la rima/assonanza con cedere) alla dissonante e quasi esoterica “Sangue” - che in qualche modo è un rompere le righe di una ballata cantautorale – si parla di Dio prima e di Hitler dopo. Tesi e antitesi. Come l'uso della batteria che è come se parlasse. Qual è il modo migliore per essere felici secondo te, in un mondo in cui sacro e profano spesso sono facce della stessa medaglia?

Io credo fortemente nella conquista di se stessi che però è un percorso complesso. E’ una cosa che è come se fosse data per scontata oggi ma in realtà siamo così lontani dal nostro vero sentire, per tutta una lunga serie di cose, che dobbiamo imparare a convivere prima con noi stessi, i veri sconosciuti, e poi con gli altri. Ho passato anni a leggere testi e teorie sulla scoperta dell’Altro in tutte le sue varie forme ma l’unica cosa che ne traggo è che se non impariamo ad accettare l’Altro e gli Altri che abitano in noi, quelli veri e reali che stanno fuori, neanche li consideriamo. Io amo esporre tesi e antitesi sempre, in ogni cosa che faccio e sono. Vivo di e con domande costanti, ogni giorno e attimo e lascio che le poche risposte sensate, se ci sono, scaturiscano da sole, spontaneamente, dopo il lungo e costante lavorio interiore che le rende disponibili. Le risposte sono lì fuori, già presenti, siamo noi a doverle incontrare rendendoci disponibili e aperti. Uno dei nuovi titoli sarà “In costante naufragio”. E’ uno stato che mi si confà parecchio. 

“Ho bisogno di te”, che riprende musicalmente “Come Hitler”, ci colpisce non solo per l'intensità minimalista che riesce a creare ma anche perché viene fuori la tua voce più graffiante e naturale. Tu dici che “sapresti cosa dire e sopratutto a chi”. Da dove vogliamo iniziare?

E’ un piccolo segreto che conoscono solo le persone molto vicine ma tutta la canzone nasce da una sensazione che mi ha pervaso dopo un concerto e seguito fino alla scrittura del testo. La sento molto, la sentiamo molto quando la suoniamo dal vivo, perché parla di noi (musicisti e artisti ma anche di uomini normali) e di come abbiamo bisogno di un pubblico, dei colleghi, di conferme un po’ da parte di tutti chi più chi meno, fino a un certo punto. L’emancipazione, il distacco. Anche questa è una cosa difficile da ammettere perché estremamente ambigua, ammettere il bisogno di e per una persona altra da noi, è una conquista inevitabile e fondamentale lungo il percorso verso l’emancipazione e la libertà. Siamo esseri dipendenti fin dalla nascita, guarda il bambino, e uscire o accettare tutto questo con tutte le sue implicazioni del caso, più o meno forti e uniche, spesso è un‘impresa eroica. Ecco, io ho passato buona parte della mia vita e energie a oggi, in questa lunga cavalcata.


Si arriva anche a parlare di crisi di identità, di cultura, di presidenti. Cosa ci hanno lasciato gli ultimi vent'anni di storia del nostro Paese, che ha “ucciso” nel vero senso della parola, la cultura ed in primis la musica?

La noia e il fastidio, la rassegnazione. Crisi d’identità? Avete ragione, è un ottimo strumento. Questo è un Paese rassegnato, nella maggior parte dei casi, e viene tenuto e conservato in tale stato, crisi d’identità, per vili questioni di potere e denaro. Questo in tanti non sono neanche in grado di capirlo e spesso sono i ricchi, quelli che avrebbero più strumenti per cambiare ma che in realtà sono i più “ingabbiati”. Credo che la vera rivoluzione avverrà naturalmente a livello planetario quando e se la maggior parte di noi sarà in grado di crescere, evolvere e le scelte a un certo punto, per e nel nome della qualità delle nostre esistenze, dovranno essere fisiologiche a un certo punto. Una volta che una persona sa ascoltarsi davvero è inevitabile che viva nel rispetto di se stessa e degli altri e questo trasforma automaticamente confini e limiti delle relazioni. Oggi abbiamo così tanti strumenti che mi vergogno di dove e come siamo ma sempre di più incontro belle persone sparse lungo lo stivale, quindi...

Leggendo uno dietro l'altro tutti i brani del tuo disco si crea quasi un discorso di senso compiuto che parte dalla nascita, passando attraverso storie e sentimenti fino ad un messaggio finale. P. S.: “Come vedi non vali la mia libertà”. Hai raggiunto il traguardo che ti ha portato ad essere un uomo libero?

Le vostre domande e considerazioni mi rendono felice, ve lo confesso. Ora vi parlo un secondo di coppia e di uomini in qualche modo. Ho capito che la natura e la vita, noi stessi, ci plasmiamo fino a un certo grado; non possiamo andare d’accordo con tutti e con tutte, ora come ora e gli incontri allora diventano fondamentali. Le persone, la loro evoluzione e crescita risulta drammaticamente importante ma ancora di più lo è la capacità di ascolto e di attenzione, di rispetto. Saper scegliere in maniera consapevole per quello che ci fa bene è un punto di arrivo necessario e invece la gente continua a imbottirsi di medicinali, ansiolitici, fumo e alcool, cattiva musica, rumore, film inutili e recitazione devastante, pilotata in qualche modo dall’alto, l’esatto contrario e si creano spaccature indelebili. Questo ci tiene tutti o quasi in uno stato di sonnambulismo costante e di mancanza di dialogo che permette a chi vuole di comandarci a piacimento. Senza andare troppo lontano eh, basta accendere la radio e ascoltare che cosa viene scelto che venga ascoltato o mostrato. Continuare a nutrire un popolo col mais porta alla pellagra e continuare a ridurre cibo per la mente e la consapevolezza porta alla morte cerebrale, alla lobotomia. 


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