Dopo due anni torna con “Il
Tramonto dell'Occidente”, Mario Venuti, che in parte continua il suo percorso
cantautorale che risente fortemente della scena catanese e siciliana tutta, ma
che poi si distacca da certe composizioni magari più personali, ci “mette meno
la faccia” come dice lui, ma guarda più con gli occhi. Perchè questo album, che
in realtà è un vero e proprio concept, parla di una società, di una generazione
“Um” o “Bho”, di un Paese alla deriva, di governanti e governati. E riesce a
farlo senza scadere nella retorica. Una “prospettiva Venuti” per citare il suo
compaesano Battiato che qui ci mette, volontariamente o meno, del suo. Mario
Venuti torna alle origini di una certa cultura, forse l'ultima che ha cambiato
veramente le cose, quella di 30 anni fa, non solo musicale. Per questo lavoro
coinvolge anche alcuni suoi illustri colleghi come Francesco Bianconi dei
Baustelle e l’immancabile storico amico Kaballà, ma anche un giovane cantautore
siciliano come Nicolò Carnesi e una storica voce come quella di Alice. In “Ite
missa est” c’è spazio anche per Giusy Ferreri e se qualcuno si chiede perché,
molto probabilmente la risposta sta in questo lavoro dove tutto ha un senso.
“Il tramonto”: “Dal balcone
l'altro giorno ho visto uno studente rovistare nella spazzatura, nelle liste
elettorali leggo nomi di maiali, gli svantaggi della libertà”... molto eterea,
un sound elettronico che ricorda i lavori di Franco Battiato e difatti lo stesso
Venuti ha affermato che il maestro è stato “nume tutelare” di questo disco. Qui
il nostro dimostra nel testo una maturità completa, totale, dove è sì la
“deriva dei continenti” per meglio spiegare la nostra Repubblica, l'Italia
senza scadere nella retorica, anzi. Lo studente che cerca tra i rifiuti è la negazione
di un diritto sacro santo, i nomi di maiali nel ricordo del “Porcellum” e dei
“costumi dei presidenti”, le volgarità e la mercificazione del corpo nella
frase: “confidiamo nella scollatura”... un testo da ascoltare con attenzione.
“Ite missa est”: synt e suoni
elettro-dance molto anni '80, passato il trauma”sacrale” iniziale: “Qualcuno
legge le statistiche del tasso di felicità e c'è chi scrive solo musica mistica
pensando sia di qualità”... sembra quasi dire: “Grazie a Dio sono ateo”, altro
gran pezzo trascinante che ha poco in realtà di sacro e molto di... new wave!
Nel bridge si possono sentire le voci in coro di Bianconi e Ferreri, come a
volere mischiare due culture molto diverse tra loro: quella d'autore e il pop
commerciale.
“I capolavori di Beethoven”: “La
corona di spine che stiamo portando ci ricorda la rosa che sangue non da, il
ragazzo selvaggio di questo Occidente che un mercato demente sacrificherà”...
ecco di cosa stavamo parlando, ecco Battiato con la sua profonda vocalità, con
l'aurea mistica che riesce a donare ed entrare in simbiosi alla perfezione con
Venuti. “I capolavori di Beethoven non erano l'ardore dei vent'anni, non erano
il segnale del divino, ma il primo dono della sordità”... non è per entusiasmo
né per ripetizione, né per tanto per dire ma questo brano, o meglio questa
“Sonata in Do minore”, è un vero capolavoro. Affascinante l'accostamento tra la
sordità di cui soffriva il musicista, visto quasi come un dono, per non sentire
le futili voci del mondo, ma anche come il superamento di un handicap, di un ostacolo
con la forza umana.
“Perchè”: la domanda sorge
spontanea? No, è il naturale percorso, una domanda lecita se scrivi un disco
del genere. In questi pochi secondi il declino si manifesta, violini impazziti
suonano, è tutto distorto, sperimentale...
“Ventre della Città”: dal testo
si capisce senza giri di parole qual è il “busillisi” come dice un altro suo
compaesano, Andrea Camilleri: “Tu mi hai raccontato che rubavi rame che ti ha
beccato la polizia, che sei già sposavi con una bambina con la cocaina vivi a
casa sua”. Intro elettronico con il basso in evidenza, la storia delle
periferie d’Italia come la risacca di tutti i mali, dove non c’è tempo per
sognare… e invece anche qui Venuti si inventa un “paradiso” segreto: “Non sarà
male fermarsi a guardare le nostre ferite, le stelle inventate, nel ventre
della Città”. D’altronde è quello che pensava Pasolini, e quello che diceva De
Andrè: “Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori”.
“Passau a cannalora”: prima
canzone in lingua madre per Venuti. Una poesia, gli scorci di un paese in
festa, forse Santa Rita, ma molto più probabilmente Sant’Agata, la protettrice
di Catania: “Aituzza, bedda Aituzza, putissi
fari oru di tutta ‘sta munnizza, tunnari a dari ancora a ‘sta città na
‘nticchia di la tò biddizza”. Anche qui non ci sposta dalla tematica già
affrontata in “Il ventre della Città”. Un’Italia ricca di storia, arte e
cultura che tutto distrugge ma, sotto le macerie, scavando a fondo a mani nude,
si può ancora scorgere la “grande bellezza”.
“Arabian Boys”: intro arabeggiante e dissonante: “E si
ascoltavano canzoni occidentali nelle drogherie di Tunisi, il presidente
radunava la sua scorta per lasciare la città, erano rose e cherosene ad infestare
quella primavera araba ed ogni amore che passò, passò per senso di vertigine”… di
amori “che sanno di catastrofe” dietro le barricate, non quelle più famose del ’68
ma quelle nordafricane. E mentre le ragazze si danno appuntamento “alle vetrine
per la svendita dell’intimo”, qui si fa la guerra. Due mondi a confronto, due
culture così diverse…
“Tutto appare”: dal timbro molto baustelliano, fila via con
una batteria a mò di loop, “Niente esiste, tutto appare c’è quello che non c’è
niente esiste tutto appare e nulla è come è”… bridge futurista con la voce
mistica di Alice ed altrimenti non potrebbe essere. Anche qui synt new wave che
sono una vera benedizione.
“Ciao American dream”: “Ho venduto i desideri che cosa darei
per non svegliarmi più” una ballad di tutto rispetto, con le chitarre ritmiche
e la solista distorta quanto basta. La sezione ritmica è pulita e nasce come rivisitazione
di “Ashes of american flags” dei Wilco.
“Il banco di Disisa”: sonorità sacre donate da un piano che trasforma
il brano in una favola ed il testo gli dà ragione: “Dicono che sull’isola
nascosto su una grotta di sicuro ci sia il banco di Disisa… ricchezze
indescrivibili tu troverai davanti a te, tesori inesauribili solo per te, ma se
di quest’oro tu non ti spoglierai, da qui non uscirai”. In pochi sanno che l’agro
più fertile della Conca d’Oro di Palermo – già dai primi anni mille – è il
feudo Disisa che produce ottimi vini, tant’è che una leggenda dice che in
queste terre siciliane ci sia un tesoro nascosto, una naturale fertilità. Ecco
che il tesoro, l’oro delle nostre terre diventa risorsa, non l’oro da
accumulare che alimenta il potere.
“L’alba”: dopo un intro “cinese” il disco si chiude con lo
stile che Mario Venuti recupera dai precedenti lavori: “Io sto camminando verso
l’Alba che per sua natura nasce ad est e sto recitando un altro Mantra prendo
più coscienza cerco me”. Ed ecco che si introduce la vocalità malinconica di
Nicolò Carnesi che in questo pezzo si sposa alla perfezione tra citazioni di
Lorenzo dè Medici…
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