Franco Battiato torna con il trentesimo album in studio "Bluworld" con il nome di “Joe
Patti's experimental group”, un progetto realizzato
con un “vecchio” compagno di avventure: Pino “Pinaxa” Pischetola, già fonico di
Jovanotti, Celentano, Baglioni e Consoli. Dopo le esperienze con il teatro, con
il cinema, con le collaborazioni (Antony and the Johnsons, Marta sui Tubi, Mario
Venuti, Alice), il cantautore catanese si rimette in gioco ed è una scommessa
vinta. Parlare di un “nuovo” Battiato
è sbagliato. In realtà si tratta di un Battiato “ripescato” e rinnovato, messo
a nuovo, un “rivedere le idee”, i concetti, rielaborando quello stile musica
che aveva caratterizzato in parte le sue produzioni elettroniche degli anni
'70, come in Fetus o Clic, ribadendo quanto sostenuto – a parole, musica e
fatti – in 35 anni di carriera, solo con un nuovo punto di vista: la presa di
coscienza. Una coscienza che torna a vestirsi anche di sperimentale e
spirituale, d'avanguardia, strizzando l'occhio a “Campi Magnetici”. Qui
Battiato “usa” pianoforte, tastiere e synth, sporcando l'album che ricorda un
suo zio emigrato in America, con riverberi, flash campionati elettro-shock,
contaminati di frasi sparse e sensate che non sono altro che parti di brani già
composti. Ne viene fuori un magistrale linguaggio musicale intriso di culture e
tradizioni diverse, lontane spazio tempo, da
Occidente ad Oriente, un quadro realizzato con
la tecnica digitale, un'opera di Igor Stravinski, un film di David Lynch. Battiato si può
concedere un disco così, costruito ad hoc. Un Battiato che nonostante
rappresenti sé stesso, non è mai banale, riuscendo a capire – diversamente da
molti suoi colleghi – che la musica, come mezzo di comunicazione innanzitutto,
è andata avanti e lui a quasi 70 anni non si è adagiato sugli allori, si è
messo in gioco, al di là delle mode commerciali che ci iniettano i media. Non è
l'unico per la verità ad intraprendere questo percorso in Italia, ma è uno dei
pochi che riesce ad andare oltre quel muro di scissione che non è soltanto
stata (ed è) fisica, ma soprattutto mentale.
“Leoncavallo”: suoni sacri giunti da vicini luoghi di culto, donano quiete e pace e i synth
qui non sono altro che porte che si aprono ai misticismi del suo autore: “Le pareti del cervello non
hanno più finestre, i colori del buio” tra echi e flash elettrici, batterie looppate e vocalizzi zen nel
ricordo del Centro Sociale di Milano. Il testo richiama un vecchio brano di
Battiato, “New Frontiers”.
“Le voci si faranno presenze”: intro dalla metrica “ad ottavi” che rivela sintetizzatori che
si vestono di organi ed ancora echi filtrati: “Sai sai sai dire addio ai ai ai giorni felici. Ascolta nel fondo
dell’ombra
una visione ti viene incontro, un giorno senza tramonto, le voci si faranno
presenze, presenze"... ci ricorda la ghost track contenuta nel disco “Fleurs”
“Klavier”: il piano nella sua nudità e senza celarsi è pigro e
diffonde note come gocce nel mare immenso e dona pace nel suo essere dolcemente
visionaria.
“Omaggio a Giordano Bruno”: musiche di violini non bene
riconoscibili, inquietanti, di una spiritualità profonda, eretica, fatta di
riverberi. Battiato vuole omaggiare chiaramente uno dei più grandi filosofi italiani
e lo fa in quei cori lontani deformati che evocano la frase celebre del
Giordano Bruno condannato al rogo dalla Santa Inquisizione: “Forse tremate più voi nel pronunciare contro di
me questa sentenza che io nell'ascoltarla”. Le paure si materializzano, perché spesso
ciò che è diverso ci spaventa, è la sensazione che pervade il brano e l’intero
disco.
“Come un branco di lupi”: riprendendo “In trance” di “Campi Magnetici”, le parole sono prese in prestito da "Inneres auge" scritta con il
compianto amico Manlio Sgalambro: “Come un branco di lupi che scende dagli altipiani ululando o
uno sciame di api accanite divoratrici di petali odoranti, precipitano
roteando come massi da altissimi monti in rovina”, canzone che fu scritta palesemente contro la politica e la vita
privata dell’ex premier Silvio Berlusconi.
Synth futuristi proiettano su una civiltà che scorre frenetica. Sul finale un
pianoforte smanioso sveglia le coscienze.
“The implicate Order”: ritmo pop che si fa spazio
per venir fuori, così sinuoso, i synth riffeggiano distorsi e sprigionano d’improvviso venature orientali,
come ferite, rughe, il sound cambia identità, il tempo e lo spazio non sono più
fattori dominanti ed emerge la teoria di David Bohm: due quadri diversi per la comprensione dello stesso fenomeno. E sono immagini
di guerre che pensiamo lontane ed invece sono più che vicine quelle che vengono
in mente a voler distogliere l’attenzione
dalla pace interiore.
“Nel cosmo”: un “vuoto” colmato da preghiere sono un piccolo mondo che è l’antipasto del successivo...
“CERN”: un sound etereo svela una messa arcaica e la vita e la morte
sono facce della stessa medaglia. Anche se Battiato spinge sul minimal che
risulta troppo eccessivo, intelligentemente nella seconda parte vira con un ricco loop
di batteria e flash impazziti; chissà, forse componendo questo brano il
cantautore catanese avrà pensato ai popoli tibetani, figli di una “terra di esilio”.
“Nuba”: cantata probabilmente in un dialetto africano nel
ricordo dei popoli del Sudan meridionale, dilatazioni elettriche ed ancora una
volta minimaliste...
“L’isola Elefante”: gli ascoltatori più attenti potranno risentire l’influenza e i racconti di
Shackleton già contenuta in “Gommalacca” in cui si racconta della Guerra del gennaio 1915, dove un forte vento spingeva grandi blocchi di ghiaccio galleggianti imprigionando per sempre la
nave dell'audace capitano Shakleton. Su
un piccolo battello, con due soli compagni, navigò
fino a raggiungere la Georgia Australe; mentre
i 22 superstiti dell'isola Elefante sopportavano
un tremendo inverno. Battiato recita una
preghiera in tedesco. Sicuramente
uno dei miglior brani del disco, dall’impatto eterno, qui Battiato torna al periodo progressive
riuscendo ad innovare il sound sempre ben equalizzato e qui va dato atto dell’ottimo lavoro fatto da Pinaxa.
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