Tratto da una storia vera "Big Eyes" di Tim Burton è paragonabile a un "solare" e fiero affresco sull'evoluzione del ruolo della donna nella società moderna, di quanto abbia dovuto combattere, penare, soffrire in silenzio, per aver finalmente riconosciuto i propri diritti "effettivamente" non solo apparentemente. La forza, la natura della pellicola è riscontrabile in queste poche righe che segnano la vicenda narrata, come tappe di una liberazione vera e propria, di una presa di coscienza forte e finalmente evidente anche agli occhi chiusi e ostinati, imposti da regole vetuste che oggi possono solo far sorridere. Eppure sul finire degli anni cinquanta non era così ed una donna di assoluto talento e sensibilità, Margaret Ulbrich magistralmente interpretata da Amy Adams, è "complice costretta" di Water Keane, un Christoph Waltz, volutamente caricaturale, esagerato, debordante, nel suo portare ingenuo cinismo mercantile ad ogni inquadratura e dialogo e si fa soffiare i suoi dipinti, fatti di occhioni desolati di bambini tristi, che ricercano la loro anima perduta, senza colpo ferire. La realtà supera la fantasia quando il successo arriderà alla coppia, in maniera "copiosa" e pari alle intuizioni di marketing d'avanguardia del Keane farlocco. Come va a finire la storia è decisamente... storia, quello che conta sono gli occhi, gli sguardi di Margaret, che diventano sempre più consapevoli e accompagnano la rivalsa a piccoli passi, con l'estremo sudore della conquista e che fanno del film di Burton un omaggio sincero e accurato, che rende bene "l'aria che si respirava" allora e che avrebbe portato subito dopo alla rivoluzione femminista. Quello che manca alla fine dei conti è paradossalmente la storia stessa, coi suoi colpi di scena ma anche nei suoi semplici snodi, in questo caso la realtà soccombe alla fantasia e tutto è ampiamente prevedibile, ma come dicevamo poc'anzi, l'anima del film è da cercare altrove, in quello che effettivamente Burton ha cercato di trasmettere e in questo caso, c'è sicuramente riuscito, aiutato anche dalla fotografia eccelsa di Bruno Delbonnel, valore aggiunto, mentre "il nostro" gioca quasi a nascondersi. Nelle inquadrature solitarie, quando Margaret è al lavoro, dove appare quasi come un'operaia schiavizzata alla catena di montaggio, in auto e nella mirabile scena al supermarket, quando clienti e commesse prendono le fattezze dei suoi ritratti, Burton appare quasi miracolosamente a dar pennellate d'autore. Tutto ciò non basta ma di certo arricchisce il corpus di un film sicuramente discreto che paga una trama "seppur vera" sin troppo esile e prevedibile.
Tratto da una storia vera "Big Eyes" di Tim Burton è paragonabile a un "solare" e fiero affresco sull'evoluzione del ruolo della donna nella società moderna, di quanto abbia dovuto combattere, penare, soffrire in silenzio, per aver finalmente riconosciuto i propri diritti "effettivamente" non solo apparentemente. La forza, la natura della pellicola è riscontrabile in queste poche righe che segnano la vicenda narrata, come tappe di una liberazione vera e propria, di una presa di coscienza forte e finalmente evidente anche agli occhi chiusi e ostinati, imposti da regole vetuste che oggi possono solo far sorridere. Eppure sul finire degli anni cinquanta non era così ed una donna di assoluto talento e sensibilità, Margaret Ulbrich magistralmente interpretata da Amy Adams, è "complice costretta" di Water Keane, un Christoph Waltz, volutamente caricaturale, esagerato, debordante, nel suo portare ingenuo cinismo mercantile ad ogni inquadratura e dialogo e si fa soffiare i suoi dipinti, fatti di occhioni desolati di bambini tristi, che ricercano la loro anima perduta, senza colpo ferire. La realtà supera la fantasia quando il successo arriderà alla coppia, in maniera "copiosa" e pari alle intuizioni di marketing d'avanguardia del Keane farlocco. Come va a finire la storia è decisamente... storia, quello che conta sono gli occhi, gli sguardi di Margaret, che diventano sempre più consapevoli e accompagnano la rivalsa a piccoli passi, con l'estremo sudore della conquista e che fanno del film di Burton un omaggio sincero e accurato, che rende bene "l'aria che si respirava" allora e che avrebbe portato subito dopo alla rivoluzione femminista. Quello che manca alla fine dei conti è paradossalmente la storia stessa, coi suoi colpi di scena ma anche nei suoi semplici snodi, in questo caso la realtà soccombe alla fantasia e tutto è ampiamente prevedibile, ma come dicevamo poc'anzi, l'anima del film è da cercare altrove, in quello che effettivamente Burton ha cercato di trasmettere e in questo caso, c'è sicuramente riuscito, aiutato anche dalla fotografia eccelsa di Bruno Delbonnel, valore aggiunto, mentre "il nostro" gioca quasi a nascondersi. Nelle inquadrature solitarie, quando Margaret è al lavoro, dove appare quasi come un'operaia schiavizzata alla catena di montaggio, in auto e nella mirabile scena al supermarket, quando clienti e commesse prendono le fattezze dei suoi ritratti, Burton appare quasi miracolosamente a dar pennellate d'autore. Tutto ciò non basta ma di certo arricchisce il corpus di un film sicuramente discreto che paga una trama "seppur vera" sin troppo esile e prevedibile.
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