John De Leo - Il Grande Abarasse


Quando ascoltate “Il Grande Abarasse” chiudete gli occhi e sognate di essere... in un condominio. Si, un condominio. Non in valli incantate, spiagge da sogno o infinite distese, ma un condominio. Con il vicino che sgrida alla moglie, il vecchio scontroso che batte il bastone sul pavimento, la madre che urla al figlio che non vuole parlare, gli sproloqui di un'anziana che non si fa mai gli affari suoi, i fidanzati che amoreggiano. E poi c'è lui, John De Leo, che in un'ideale stanza di questo palazzone, sta in silenzio ed ascolta e scrive questo concept album, che al giorno d'oggi sono di moda, continuando per certi aspetti un discorso già iniziato con l'ultimo suo lavoro con i Quintorigo – infatti l'illustrazione della copertina è di Andrea Serio, lo stesso che disegnò “In Cattività” – che il precedente solista “Vago Svanendo” ha scarnificato e rivestito di prodigiose sperimentazioni, sviluppando il concetto teatrale di mixare ed amalgamare sonorità diverse, dall'elettronica al jazz, allo swing, al rock, al punk, al blues, alla musica classica. Generi diversi proprio come le persone che vivono in un condominio, ispirazioni differenti, sentimenti contrastanti. De Leo lo fa senza creare un'accozzaglia, riordina le idee senza seguire uno schema preciso, perchè in verità l'unica regola della musica è di non avere regole e lui, con la sua camaleontica voce, lo sa bene, confermandosi, a nostro avviso e sfido ad affermare il contrario, il miglior interprete della musica italiana, forse non facile ad un orecchio commerciale, ma sapete, oltre il mainstream c'è vita. Per sapere cos'è “Il Grande Abarasse”, in verità “non lo sa neanche lui”, se ricerca o abbraccio, ritornate a chiudere gli occhi... perchè al di là di queste storie c'è una ghost track fatta di silenti rumori, che sprigionano solitudini di gruppo, ossimori non taciuti, la colonna sonora delle vite nell'ombra. Con lui, nel disco, grandi nomi della scena musicale: l'Orchestra Filarmonica di Bologna, i musicisti Beppe Scardino, Piero Bittolo Bon, Fabrizio Tarroni, Dario Giovannini e il grande Uri Cane.

Intro – E' già finita? Il cantante muto”: Rumori sordi come passi, qualcuno che urla oltre la parete ed un uomo, che ascolta nella sua solitudine: “Si, chiamalo ma tanto non può risponderti è come parlare a un muro, dicono che sia nato così, ma per me si è chiuso e non parla più. E' magari sta canzonando tutti e tace un suono sconosciuto. Lui ha una voce che va al di là ma al punto che non canta più, è muto, muto”, sembra la considerazione di un balbuziente che condivide i silenzi di un “suo simile”, gli stessi silenzi che vive lui. I campionamenti vestono quest'intro sui generis...


Il gatto persiano”: la versatilità della voce di De Leo lo porta a mutare pelle, dal rospo al gatto come se nulla fosse, vocalizzi che si sovraregistrano e che sono veri e propri strumenti musicali... il gatto si aggira indisturbato col suo passo felpato funky che fa le fusa, il finale fa sorridere: “Aaaaaah! Ah, sei tu!”.

La Mazurka del Misantropo”: esilarante visione di un vecchio scorbutico disprezzante ed ossessiva delle rumene (o forse saran polacche), che si prendono cura di lui. Una l'ha fatta già fuori. Una mazurka che in realtà è un walzer a voler rimarcare una visione mentale distorta dal “... canto soave delle sirene polacche”, perchè “...lei lo fa apposta, ti vuole incantare, cosa gli da tanta felicità” e rotta da un Modugno cantato da chissà quale grammofono ancora in uso...

Io non ha senso”: claustrofobica sul senso dell'essere, sull'Io e la perdita d'identità, sperimentale e cinematografica, vocalmente tesa e pulita. Ci immaginiamo un uomo sulla soglia della porta, con la valigia ai suoi piedi. “Io che senso avrà, io nel disegno sono e non somiglio io nel tuo gesto nel ritratto di un altro, io nell'inferno, quello che abitiamo, io ho scelto un nostro spazio. Io ho senso, io ho senso... Io non ha tempo”.

Primo moto ventoso”: sound anni '30 (ci ricorda Bentivoglio Angelina), violino essenzialista, aurea classicista, ricordiamo che l'album vanta la collaborazione dell'Orchestra Filarmonica di Bologna. Un suono lontano che è una voce o un theremin, delicata...

"Apocalissi Mantra Blues": preludio d'oltre tomba, la voce di De Leo si fa blues con gli strumenti a corda ed i fiati che riprendono il percorso fatto con i Quintorigo, sempre vincente e trascinante, così emergono i pensieri della signora Zanardi: “Porgi l'altra guancia alla realtà, sopra il sepolcro di Malta, l'acqua è limpida, la vita a volte è una condanna, l'oggi finirà e se dopo ne verrà un'altra o se nasco giraffa, e se dopo ne verrà un'altra, prova questo mantra...grazie”... finale au contraire dalle reminiscenze battistiane: “Lo scopriremo solo morendo...”

50 euro (Trappo-Lounge)”: sensuale e intrigante, ancora la vocalità trasformista del nostro, che si sdoppia, vive “sul chi va la”, non si fida, qualcuno vuole intrappolarlo, l'uomo è diffidente per sua natura: “Occhi aperti o ti prendono forse è una trappola... le spie nemiche sono ovunque complottano, tu non distrarti mai”...

The Oder syde of a Shadow”: eterea e ironicamente drammatica, ecco un altro ossimoro, in cui le corde del cantante romagnolo (quelle vocali, s'intende) si sposano con la genialità dei tasti di Uri Cane, con l'estro delle sue improvvisazioni. Il brano è davvero una delizia per lo spirito, rivelando il significato insito nel disco, le molteplici interiorità, la psiche umana, le personalità distorte. Ci viene in mente una citazione nel romanzo di Donato Carrisi, “Il Tribunale delle anime”: “C'è un luogo in cui il mondo della luce incontra quello delle tenebre. E lì che avviene ogni cosa: nella terra delle tenebre, dove tutto è rarefatto, confuso, incerto”. Il connubio tra De Leo e Uri Cane riesce a scorgere questa terra di mezzo.

Di noi uno (Bond of union)”: “Dal vapore dirada il mondo diviso che siamo. Torna poi risacca in bocca, ma canto ancora resta un soffio mai esistito ed infinito...”, raffinata ma minimalista, riesce ad essere melodica ma al contempo dissonante, tra vocalizzi/gemiti, due corpi che fanno l'amore.

Muto (come un pesce rosso)”: una chitarra timidamente ombrosamente blues, richiama l'intro ed esplode rockeggiante, graffiante, subdola: “E mentre si alza la voce dei propri impulsi, più frana la soglia del buongusto, vincerà la sfida quella più becera, frattanto lui ha già spento il volume, è muto... muto”. Davvero esilarante ed ancora una volta De Leo usa lo sperimentale per esprimersi, di una bellezza sottile e raffinata non per tutti, ma per pochi, per gli “eletti”. Finale di rumori, chitarre elettriche distorte e blueseggianti, unghie sulla lavagna, tra aperture sonore e vocalizzi brillanti. Non c'è che dire, ancora una volta John De Leo si conferma un interprete straordinario.


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