Bifolchi - Diario di un vecchio porco


“Diario di un vecchio porco”, citando Bukowski, è il disco di esordio dei Bifolchi, a cui l'ironia non manca e neanche la bravura nell'esecuzione, che più che un album è un vero taccuino dove annotare scorci di vita contemporanea, dell'involuzione del nostro Paese, partendo da tante storie anonime, dal maniaco all'amante, dal matto ai “giullari” del quartiere, il tutto condito da un buon folk, dove gli strumenti impreziosiscono il tutto con riff country. Salvatore Brasco (voce e chitarra acustica), Nico Grasso (chitarre), Samuele Pellegrini (basso, cori e tastiere) e Francesco Giomi (percussioni e batteria), di stoffa ne hanno eccome – davvero molto interessante l’uso delle chitarre così ben curate e variegate - e come disco d'esordio non c'è che dire se non che potrebbero ancora maggiormente uscir fuori dal contesto della tradizione popolare per non esserne musicalmente ancorati e fare in modo che non siano secondari ma, al contrario, che diventino sempre più l’esaltazione dei testi così veri. E qui è l’amore, nel bene e nel male, il protagonista assoluto.

“Divano Revolution”: chitarre puramente country e la particolare voce di Brasco che canta satiricamente: “Ma che ci importa restiamo alla finestra, l'abbonamento Sky e la partita che ci aspetta e non c'è fretta non c'è ragione diciamo agli altri: andate a farla voi a far la rivoluzione”. Ottimo il ruolo dell'elettrica molto vispa e grintosa. Cosa resta alle vecchie generazioni sessantottine? Un telecomando per cambiar canale, l'unico sforzo immane... ed i figli da mantenere.

“Il Vecchio Porco”: intro tamburi folk ed arpeggi ancora country: “Sono un vecchio porco saltello di fiore in fiore, maledico le donne ma le guardo fare all'amore, l'amore... quando invidio l'amore", i suoi occhi perversi raccontano tante storie viste, o desiderate. Ma è la paura dell'amore quello che rende bramoso il personaggio del vecchio porco, per cui i Bifolchi ne provano quasi pietà e tenerezza...

“Gli amanti”: i riff della elettrica rendono il brano molto “sospettoso”, buona la dose di basso che insieme alla batteria è molto variegata: “E poi ti incanti su una vetrina di Chanel, tacchi a spillo, reggiseni e cotillon, non ho più niente sul mio conto corrente” anche qui l'amore ai tempi... di uno sbadiglio davanti alla tv, di una crisi costante, dove l'unico amore possibile è quello fatto di sotterfugi, che non può costruire nulla di concreto. Questo si schianta contro la leggerezza dei “taratiratta ta” del finale e va bene così.

“Anche i matti impazziscono per amore”: una ballad folk con una possente sezione ritmica in stile Modena City Ramblers meglio non potrebbe raccontare il migrante Gianni: “Qui icono che ogni letto serve solo per riposare ma non per amare, ma io in queste quattro mura voglio dormire, solo per sognare un futuro insieme...” cosa resta di una vita sacrificata, neanche un amore per vivere in pace, perchè nessuno ci crede.

“Il farmacista”: le chitarre sono tic di ska impazziti, con cambi di tonalità dissonanti, ma quello che viene in rilievo è sicuramente il testo: “Siamo tutti da curare, proprio tutti da curare...” come partire da una storia di paese per raccontare quello che c'è dietro a sorrisi e pillole come caramelle: la lobby farmaceutica mondiale.

“La gente mormora”: un walzerino dolente dove la chitarra cuce addosso arpeggi e note e Brasco canta: “E mi rifugio in un orgasmo per colmare i vuoti della vita, di questa strana vita che passa che sfiga”. Interessante il passaggio finale: “La gente mormora si stava meglio quando si stava peggio, almeno si mangiava, si andava tutti a lavorare”… spesso tra le persone anziane si cita questa famosa massima, triste ma vera, quando ai tempi mussoliniani, si poteva dormire anche con le porte aperte... tanto non c'era nulla da rubare...

“La banda della gallina”: efficaci gli effetti della chitarra folk che nel giro del chorus rockeggia e ci mette dentro anche un bell’assolo: “Dammi un euro dammi un euro per sognare dammi un euro dammi un euro per campare tu dammi un euro e ti porterò in Brasile ad aprire un bar sulla spiaggia e a far l’amore”, quattro “ruba galline” o meglio slot machine solo per avere un soldo in tasca col sogno chissà, probabilmente mai raggiungibile, di diventare ricchi nelle spiagge sudamericane.

“La nana e la scimmia”: intro alla Brassens, poi l’elettrica e la sezione ritmica fanno quello che vogliono: danzano, si divertono e fanno divertire, sicuramente uno dei brani più interessanti del disco anche per quanto riguarda il testo che fa riflettere. Anche qui la gente mormora ancora, di una donna molto bassa e del suo amore “diverso” che forse non è vero amore, ma è solo cercare di colmare un vuoto per qualcosa che non si è mai avuto, ma così facendo si rischia di non vivere una vita felice: “Si incontrarono per caso ad uno stage che bella coppia che sono un metro di incoerenza e 60 di pura diffidenza e lunghe passeggiate coi cavalli e con i cani a bere birra al pub di via Manzoni”…



“La bella di Paese”: il finale di questo disco ci sorprende con un reggae triste con le chitarre distorte che nel ritornello cambiano pelle: “La bella del paese tutti la vogliono tutti la cercano, aveva vent’anni quando sono partito in cerca di fortuna, che la fortuna qua non mi caga, spaccio marijuana agli angoli delle Ramblas”. Il povero protagonista di questa canzone non ha avuto certo una vita facile, andato in Spagna a trovar lavoro si è ritrovato a spacciare ed è ora in galera a pensare alla sua giovinezza e al suo Paese, dove l’unica cosa da ricordare è la ragazza dei suoi sogni.

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