Con “Pascouche”, che gioca sul
termine manouche e sul nome di Antonio Pascuzzo, il leader dei Rosso Antico
sforna un piccolo grande lavoro cantautorale per cui valeva attendere 4 anni.
Anni di collaborazioni intense, in particolare con Angelo Debarre, storica
chitarra manouche, che qui da un apporto essenziale. “Pascouche” però non ha
solo dei testi prettamente cantautorati, dove le storie vengono narrate
scegliendo metafore appropriate spesso malinconiche, tenere, toccando tematiche
molto attuali per l’Italia di oggi – in particolare sulla morte della cultura –
e portando alla riflessione, ma l’album tocca delle punte di perfezione a
livello musicale, dove è difficile scegliere quale brano prevalga su un altro, perché
sono delle perle che spaziano dal folk al popolare, dal jazz allo swing, dalla
musica balcanica al rock senza mai essere lì a caso: ogni sound è creato su
ogni brano come un vestito confezionato su misura da un bravo sarto. Ecco
spiegata la scelta di far rientrare il lavoro tra i migliori progetti del
Premio Tenco. “Pascouche” conta sulle collaborazioni di grandi musicisti, oltre
a Debarre ognuno da il proprio prezioso apporto: i Solis String Quartet, Francesco
Forni e Ilaria Graziano, i
Sinfonico Honolulu, i Rossoantico, Pericle Odierna, Giorgio Secco e Adriana
Ester Gallo, Marco Poeta e Marco Rinalduzzi. Avevamo incominciato ad
amare i Rosso Antico e adesso Pascuzzo ci ha regalato un gioiello di
inestimabile valore.
“Alta felicità”:... la felicità
è manouche, indubbiamente, tra le note di Django Reinhardt e la vocalità alla
Giorgio Conte il rimando, un omaggio per il vero, alla tradizione popolare: “Col
cuore in gola nella stazione passa il convoglio che arriva, spezza l'incanto la
valle trema, sfreccia la locomotiva...”, ritmo “supersonico” ed è lo stesso
“gioco” che Guccini fece con la vecchia locomotiva, ma i tempi cambiano e
adesso c’è la TAV con proteste al seguito. Assoli epici dello straordinario
Angelo Debarre. Ai cori, Ilaria Graziano e
Francesco Forni.
“Fado del partigiano”:
“L'inchiostro è trasparente, le note son rumore, poeti sfollagente tra smorfie
di dolore, nei teatri della morte è di scena la paura, un giullare entrato a
corte ha bocciato la cultura. La bacchetta li governa, i solisti dentro al
coro, la legge è una preghiera, ma fondata sul lavoro”, un testo che affonda le
radici nella musica controcorrente, di denuncia, guardando alla nostra
contemporaneità ed è triste appurare quanto la storia non ci sia stata di
insegnamento. Tra citazioni da Anna Frank a “Bella ciao”, si frappone la
chitarra fadista di Marco Poeta che non è assolutamente da contorno e questo ci
piace, con la fisarmonica nostalgica e i ghirigori dei fiati.
“Bacio”: la musica di Pascuzzo
ha la forza di proiettarti completamente in un'altra realtà, magari intorno al
fuoco, in un'altra cultura. Sound hawaiano e Calypso con 13 ukulele dei
Sinfonico Honolulu, di maracas e baci negati, perduti, bevuti: “Ma se un bacio
ti manda in galera è per quel bacio che perdi la testa, pensa a un bacio
acclamato una sera brindando a una festa, battimano tra un vino e un bicchiere
che volteggia tra baffi e rossetto. Bacia labbra che chiedono e danno soltanto
rispetto”. Un bacio può essere usato anche come simbolo, come protesta, contro
ogni forma di discriminazione, un tema forte che il sound riesce a rendere
frivolo.
“Meglio solis”: i
riconoscibilissimi archi dei Solis String
Quartet classicamente intensi e la voce di Pascuzzo. Non basta altro per fare
un gran pezzo solitario, misantropo, “solo pure lui neanche il mare lo ha
difeso mentre il mondo gli cadeva addosso”, che prima o poi la solitudine che
ci creiamo, lecitamente o meno, diventerà il nostro incubo peggiore. Qui la
melodia è popolare sì, ma completamente spogliata dal quartetto: “Che ne sai tu
dell'emozione, dei labirinti della mia incoscienza, gratificato dallo stare in
bilico in quello spazio che tu chiami “senza””.
“Lulù”: l’effetto orchestrina creato da Adriana Ester
Gallo agli archi, Giorgio Secco alla chitarra e Marco Poeta alla chitarra portoghese
dipinge una favola di tempi non tanto
moderni per meglio raccontare la storia di un aborto: “C'era una volta Lulù
ciocche d'oro i suoi occhi brillavano verdi al tramonto, il cielo arrossì di
vergogna e il sole scomparve temendo il
confronto. Portava in grembo un segreto troppo ingombrante per il suo destino.
Trovò la forza di un uomo senza avere un uomo vicino”. Ascoltate...
“Il fucile e la matita”: banjo country, violini
irish su un testo forte e cantautorale, con la voce calda del nostro a
raccontare quanto vile sia un'arma e potente un’ideale di giustizia: “Non eri
tu che porgevi la guancia al nemico che la schiaffeggiava, che tristezza
pensare a un dio come al capo di un'imboscata. Il fucile prega di notte mentre
di giorno semina morte, la matita non si inginocchia davanti a un dio con le
gambe corte”.
“L'età dell'innocenza”: slide sospettosi, drums
jazz, con un filo di voce Pascuzzo canta le storie della “bella Italia”, quella
di baby gang, degli outing, dell'immondizia per le strade, del precariato e
anche della disperazione: “E sorvolò mille branchi di bufale e mozzarelle
tendevano al blu ed inseguendo segnali di fumo verso un impero che non c'è più.
Bussò col becco per non restar fuori, la casa intera si accartocciò, i tagli decimano
i gladiatori assunti a tempo con un
co.co.co.” un bel finale strumentale di un romanticismo ormai perduto...
“La rabbia”: swing d'antan, con riff ed assoli supremi,
in un binomio Pascuzzo/Buscaglione come dottor Jekyll e Mr Hyde: “Perchè non ho
capito quando credevo di cambiare il mondo, quando ho confuso posso e voglio
come accecato da un abbaglio, quando ridevo di un imbroglio davanti agli occhi
di mio figlio...”
“Le berte”: gli arpeggi della
chitarra rendono morbida questa immagine: la berta, un uccello marino che
viaggia a pelo d’acqua, al calare del sole sul Canale di Sicilia, che spesso
racconta storie di uomini coraggiosi che sfidano il mare in cerca di una vita
migliore che spesso non trovano ed il verso delle berte sono i fiati innamorati
del mare, degli abissi… ed è assolo, fiati, eleganza, infinita “tristeza”: “La
rotta in mezzo al mare nero trema di brividi la pelle, nel cielo buio c’è un
mistero, cerco un carro che mi guidi tra le stelle…”. Il brano è cantato in
coppia con Francesco Forni, il musicista che ha curato, tra le altre, le
musiche della serie Gomorra.
“Rivoluzione”: fisarmonica ed orchestrina
in stile balcanico con Pascuzzo che con la sua voce bassa e calda canta in
maniera veloce e serrata con i suoi “Rosso
Antico” con l’arrangiamento di Pericle
Odierna. Le rivoluzioni dal ’68 al 2001 sono cambiate ed i fatti della Diaz
ne rappresentano un precedente.
“Calabrisella”: “Prima t’abbrazza
e poi ti pelleria”, “prima ti scanna poi si vatte u pietto tri voti poi si fa u
segnu ra cruci”… “un “amuri” che fa “scantari”, fa paura. Lo sa bene Fabiana
Luzi uccisa a soli 14 anni dal suo fidanzato di 22. Fabiana non conoscerà mai
il vero amore ma solo la violenza e la possessività di un uomo troppo giovane
per essere definito tale. Gli strumenti si concentrano anch’essi, in questo
caso, sulle parole in dialetto calabrese.
“I musicisti della città di
brama”: il rock folk trascinante con gli arrangiamenti di Marco Rinalduzzi, è
un inno per i musicisti, per il fare e vivere di musica, ove possibile, in uno
Stato che non punta sulla cultura. Brema è una realtà che si brama: “La groupie
innamorata del cappello, riempì i suoi sogni di quei versi da bambino, 30
denari cantò l’ultimo stornello e poi scomparve rotolando nell’inchino”.
“La forchetta e la puntina”: è
lo stesso sound del brano “Il fucile e la matita” e in realtà perchè creare un tema
musicale diverso per esprimere un altro paragone? Il ministro Tremonti disse
una volta che con la cultura “non ci si fa un panino” e via con i tagli al
settore. Ma cosa faremmo noi senza la poesia, senza la musica, senza la “grande
bellezza” dei nostri monumenti, dei nostri musei, siamo una Pompei che cade a
pezzi: “La forchetta si spacca la schiena come la formica la puntina come le
cicale non cicale mica. Prova a mangiarci sotto le stelle senza il canto delle
cicale, è un artiglio che graffia la pelle, il giradischi che scava il finale”…
“Stella candente”: un valzerino
delicato con gli intervalli sempre puntuali di Debarre e Pascuzzo teatralmente
adagia queste parole: “Chi non ha sogni e non conta le stelle che pensa una
stella non debba contar, chi ti acceca di giorno di mille promesse, chi ti
lascia di notte da solo in un bar”… non si deve “vivere di luce riflessa” ma
essere protagonisti della propria vita, ognuno è protagonista della propria
storia e spesso dovrebbe ascoltare sé stessi più che essere affossati dai
cattivi consigli. Applausi per il finale….
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