Nel corso di iniziative di formazione ai docenti delle scuole,sul neorealismo nel cinema italiano, abbiamo incontrato la regista, studiosa e
documentarista Giovanna Taviani, figlia e nipote dei grandi cineasti
Vittorio e Paolo. La abbiamo incontrata per una serrata intervista
sullo stato del cinema italiano e sui suoi progetti.
Ai corsi sta trattando
il Neorealismo italiano. Quanto questo ha influenzato il cinema
internazionale, anche autori hollywodiani. E quanto sono stati
importanti autori come De Sica o Zavattini? “Noi
siamo figli del Neoralismo. Il Cinema italiano si può dire fiero e
orgoglioso in tutto il mondo perchè tutto il Cinema nasce da lì,
nasce da Rossellini, da Visconti, da De Sica e ancora oggi Martin
Scorsese nel suo viaggio in Italia si dice figlio di Roberto
Rossellini. E oggi i registi dell'ultima generazione, come Matteo
Garrone con “Gomorra” si rifà alle grandi esperienze del
neorealismo italiano. Ma anche un Crialese, o mutatis mutandis un
Sorrentino. Anche le avanguardie francesi, le nouvelle vague, come
Truffaut e Godard, portano alle estreme conseguenze la dilatazione
temporale dei film di De Sica. Se abbiamo una bandiera da esportare
in tutto il mondo è il neorealismo. Quello è made in Italy”.
Se fosse per un attimo
un medico, come valuterebbe la salute del Cinema italiano oggi. Sta
ritrovando la sua credibilità? “Credo
che in questo momento ci sia una grande energia nel Cinema Italiano
rispetto agli anni '80-'90, perchè è un cinema che torna a
raccontare la realtà che in quegli anni aveva un po' smesso di fare.
Quando
il cinema italiano torna a raccontare la realtà torna ad essere
grande. Noi
non vogliamo assolutamente imparare niente da Hollywood ed anzi ci
opponiamo al cinema di evasione
– che va bene per l'intrattenimento – ma noi andiamo oltre,
abbiamo fatto sempre un cinema di invasione, quello che rimarrà per
sempre nel canone. Negli '80-'90 il cinema italiano si era
dimenticato questo nesso tra destino e cinema, perchè questo deve
raccontare qualcosa del destino dell'uomo sul mondo. Negli ultimi 15
anni il cinema ritorna a porre l'accento su questo sguardo, sulle
guerre, sui disagi sociali nel nostro Paese, riscopre le regioni, i
dialetti, riscopre la Sicilia, la
Campania, riscopre che non siamo soli al mondo e che l'Italia non è
quel paese da mulino bianco che la pubblicità ci vuole far credere o
che il mito americano ci vuole far credere. Dal punto di vista
economico e produttivo invece, i tagli del Governo hanno penalizzato
la cultura ed il cinema nel ventennio berlusconiano. Anche se ora
arriva la riforma Franceschini”.
Nel
suo libro “Lo sguardo ubiquo” si interroga sul rapporto tra
letteratura e cinema. C'è un interessante concetto di adattamento
come disadattamento, come interpretazione di un testo. Il cinema deve
percorrere quella “strada impropria” della letteratura come
affermava Pirandello, o è riuscito a svincolarsi costruendosi un suo
linguaggio? “Il
cinema è riuscito assolutamente a svincolarsi dalla letteratura in
una perfetta osmosi e una perfetta interrelazione, dialettica con
essa. Perchè entrambi nascono dal bisogno di raccontare delle
storie, sono legati. Ma il cinema a differenza della letteratura ha
soltanto un secolo, si sta scoprendo. Oggi ci sono tantissimi registi
che tornano ai romanzi ma li mettono in scena a partire dal
linguaggio cinematografico quindi rompendo le regole letterarie”.
Oggi
sembra che certa letteratura tracci un profilo cinematografico. Prima
era il contrario. Ma non un concetto nuovo, ne sa qualcosa
Pirandello. “Pirandello
era per un cinema che fosse soltanto pura immagine e pura musica, che
prendesse coscienza di sé
come linguaggio specifico e non sopportava il cinema letterario,
romanzesco, ne aveva un'idea avanguardista. “I giganti della
montagna”, l'ultimo suo dramma teatrale, è molto cinematografico,
puri visione e suono. Penso che oggi, attraverso tutte le tappe che
ha scoperto nel '900 con Ėjzenštejn
e le tappe del montaggio, con la scenografia espressionista di Fritz
Lang, con i grandi esempi del genere di Stanley Kubrick, con Orson
Welles, con i maestri del neorealismo, il cinema italiano possa
tranquillamente dire di essersi svincolato dalla letteratura”.
Ha
girato un interessante documentario, “Il riscatto”, dove si
addentra nella difficile realtà delle carceri. Come ha vissuto
questa esperienza e perchè ha scelto il documentario come forma di
narrazione? “Ho
deciso di fare la documentarista, per due motivi: uno perchè faccio
parte di quella generazione di cineasti che ritorna alla realtà. Il
documentario infatti, rispetto al cinema di finzione, sta più
addosso alla realtà, come diceva Cesare Zavattini. Il neorealismo ha
un'approccio molto documentaristico; il secondo è un motivo
personale, essere figlia di due fratelli del cinema mondiale che
rimarranno nella storia era un po' pesante per me, una spada di
Damocle, allora ho deciso di costruirmi un mio spazio, una mia
identità, quella della documentarista, distinguermi rispetto al
cinema dei padri. Io sto benissimo nel cinema documentario. L'Orso
d'Oro a Berlino di “Fuocoammare” di Gianfranco Rosi dimostra che
il documentario ormai si è sdoganato, non è quella cosa televisiva
tipo National Geographic. Noi nel documentario raccontiamo la realtà,
la verità. A me non piace lavorare con gli attori professionisti, a
me piace scoprire un volto vero, una storia vera e raccontarla. Così
ho fatto con “Il riscatto”. Ho conosciuto un'ex detenuto che in
carcere si è salvato leggendo William Shakespeare e ho scelto di
raccontare la sua storia. C'è una messa in scena, quest'uomo è
anche un attore, però contemporaneamente è una persona vera che ha
raccontato veramente la sua storia”.
Il
suo prossimo progetto riguarda la strage di migranti, quella di Porto
Palo a Capo Passero nel '96. “La
strage di Porto Palo fu la prima grande strage di migranti nel
Mediterraneo con il primo bambino morto. Nel '96 c'era questo
ragazzino Anpalagan, che aveva vinto una borsa di studio di
informatica in Inghilterra e invece è rimasto sotto l'acqua e
nessuno gli ha dato la sepoltura perchè per anni in Italia non hanno
detto niente. Qui però saremo di fronte ad un documentario che si
ibrida di finzione, come la finzione si ibrida di elementi
documentaristici. A me piace narrare delle storie partendo dalla
realtà, ricostruendo una sceneggiatura in cui però la storia rimane
vera. Siamo di fronte ad un neo-neo realismo”.
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