Esce in questi giorni il libro autobiografico di David Lynch, "Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita" (Il Saggiatore). Si tratta di ben 400 pagine di storie, pensieri, anche le ossessioni più intime svelate sotto forma di intervista. Di uno dei più grandi e sicuramente più inquieti registi del cinema, scopriremo l'infanzia a Missoula, in Montana, l'esperienza fatta negli scout, l'amore per l'arte, la pittura, gli studi discontinui, il viaggio di tre anni in Europa e la passione per la regina. Ma anche le difficoltà a trovare finanziamenti e le prime gratificazioni, il rifugio nella meditazione. "Da piccolo ero turbato da molte cose - afferma Lynch -. Pensavo: non è così che dovrebbe andare". Poi svela la stima per il grande Federico Fellini, con cui condivide lo stesso giorno di nascita: "La sua è un’epoca del tutto differente e ha un modo di intendere la vita tipicamente italiano. Ma c’e qualcosa di particolare nei suoi film: un’atmosfera che ti fa sognare. Era un tipo unico; se si eliminasse la sua filmografia, al cinema mancherebbe un tassello enorme. Non esiste nient’altro di simile. Mi piace anche Bergman, ma le sue cose sono diversissime, rarefatte. Dei sogni rarefatti. Ritengo che anche Herzog sia uno dei grandi di tutti i tempi. Grande sul serio”.
Poi parla anche del suo cinema, i suoi sono "quadri filmati", i cui finali riflettono le paure di un uomo alla soglia dei 70 anni. Ed è qui che ancora una volta Lynch si avvicina alla pittura. Ma nel libro affronta anche l'approccio con la musica ed un viaggio temporale attraverso gli anni '50, l'America in lungo e in largo, i sogni, la lotta tra bene e male sempre così vivida nei suoi film.
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