Un
rock smorzato dalla dolcezza di Massimo Priviero che in questo suo
ultimo disco “All'Italia” (Moletto/MPC) si perde nei meandri di
un viaggio pensando al “Nebraska” di Springsteen, ma per il vero più un "Buonanotte all'Italia" di Ligabue. L'Italia del dopo
guerra, degli anni '70, l'Italia di oggi, di uomini in cerca di
fortuna, in cerca di sé stessi. Un viaggio di ricordi, di foto
sbiadite, di drammi tutti italiani, ma anche di luoghi lontani e di
nostalgia. Una nostalgia vissuta con una chitarra ed un'armonica
soprattutto nella prima parte. Un inizio quindi molto acustico come
il finale, mentre nel suo sviluppo, l'album matura una ritmica da
ballate world stile Modena City Ramblers, corredata dalla voce del nostro
sempre molto rock. I testi sono efficaci ma il disco resta incastrato
nei tempi “storici” dei cantautori di razza, dove Priviero nasce, nella “saudagi”
delle ballad. Le storie di redenzione cantate da Priviero non
riescono, al contrario, a riscattare l'uniforme “All'Italia”.
“Villa
Regina”: Un poetico intro alla Dylan, acustica e armonica con la
voce rock di Priviero che canta di lontananza di mondi e vicinanza di
sentimenti: “Mamma mamma bacia i giorni miei quando un nuovo sole
nascerà, c'è tuo figlio in terra d'oltremare sai, chiudi gli occhi
mi vedrai anche là”...
“Aquitania”:
“Son partito che era fine estate dal Trentino nel '46, ormai la
guerra era passata via ma la fame non finiva mai...” un treno fino
al Sud della Francia per trovare fortuna. Una canzone d'amore per
Anna, che inizia con campionamenti ed una dolce base ritmica, anche
se l'acustica “immobile” non è ficcante.
“Cielo
blu”: le corde tirate creano un riff energico e convincente, c'è
un gioco di arpeggi e un'aurea secca e sospettosa. Sembra l'immagine
di un deserto texano e il cielo dell'American Dream sembra vicino:
“Quante lune han visto i miei capelli bianchi ma tempo che passa io
non ne ho... non mi serve quello che non ho, ho qui il mio cielo
blu”.
“Friuli
'76”: ritmo ad ottavi molto lento che vuole per forza di cose
scandire le parole. Qui siamo al “caldo” nord, dove un ragazzo di
“anni 22” stava “...in piedi nella mia stanza e là fuori c'era
la mia montagna. La musica girava in aria, una carezza ad un cuore
che sogna...”. Ma tutto viene spezzato dal noto terremoto del 6
maggio 1976. L'intervento dell'armonica non fa altro che ammorbidire
quelle vicende storiche, non incute il dramma di quei giorni.
“Berlino”:
riff di acustica blueseggianti dove nel chorus si inserisce,
diversamente dai brani precedenti, una base ritmica, compresa la
batteria, più possente anche se sempre molto melodica. “Così una
sera ho preso un treno ed ho lasciato lì il mio bar, così una sera
ho preso un treno che portava qui a Berlino”. Ancora un testo che
parla di mollare tutto alla ricerca di fortuna, di nuove emozioni e
di sé stessi... ma sarà così? Il muro farà crollare tutte le
certezze...
“Alba
nuova”: “… che nasci al mattino e mi chedi che cosa farò, sono
qui che mi chiedo dov'è il mio cammino e che pagine ci scriverò”.
Le “finali” alla Liga per una ballad in pieno stile.
“Rinascimento”:
il brano più strumentalmente ridondante in stile Modena City
Ramblers, monotono di troppi “na na na”: “Hanno sparato in
mezzo agli occhi a questa Italia mia”...
“Mozambico”:
una fisarmonica racconta di un medico missionario: “Due ore dopo
che arrivai sarei scappato via per dire addio, per tornare a casa
mia. Più mi guardavo intorno mi dicevo cosa faccio qua...”. Ma poi
è in Africa che ha capito. La batteria flebile prende per mano il
brano, come i tamburi ed i suoni del Continente Nero ma è solo un
accenno.
“London”:
frenetico intro, di chitarre nervose che fanno solo bene al pezzo,
rispetto a quanto fatto con i brani precedenti. La fisarmonica crea
un mood irish: “Tu sarai sole che splenderà. Tu sarai stella che
brillerà. Tu sarai amor che non muore mai”... il testo questa
volta serve la musica e non viceversa. Sicuramente la migliore
canzone di questo disco.
“Bataclan”...
la strage di Parigi del novembre 2015 hanno ispirato il testo. Si
torna alle origini del disco. Voce rock canta una ballad già sentita
tante volte: “E tu lo sai, lo sai, lo sai che io sto bene anche da
sola e tu lo sai lo sai lo sai da quando mi portavi a scuola...”
“non c'è davvero paura mai...” ma per Valeria Solesin non c'è
stato forse neanche troppo tempo per avere paura.
“Abbi cura”:
torna l'armonica e il disco cerca di finire per come è iniziato...
“E quando sarai lì sotto il tuo cielo, io giuro che con te ci sarò
io e se ti chiederai cosa sarà di noi... salva l'ultima carezza mia
se vuoi”. Nella seconda parte un po' di synth non aiutano di certo
il penultimo brano.
“Basso
Piave”: Priviero non manca di ricordare anche le alluvioni del
Piave. Lo fa narrando di storie che hanno vissuto eventi tragici come
quelli del '66 e che ce l'hanno fatta: “Ma quando veniva estate ed
il lavoro chiudeva, tornava verso il suo mare e ad occhi chiusi
guardava...”. Un'atmosfera morbida ma fioca pervade, con il piano
che si mostra a piccoli passi...
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