Sull'orlo... di una crisi di nervi, i Negrita ci ripensano (a sciogliersi) per il momento e sfornano il nuovo album "Desert Yatch Club" (Mercury Records). Il percorso di Pau, Drigo e Mac non si ferma ma al contrario prosegue dritto verso l'America, i deserti di Joshua Tree e la "barca" dell'artista napoletano Alessandro Giuliano, copertina del disco oltre che fonte di ispirazione e "porto sicuro" in cui fermarsi a riflettere e ritrovare se stessi. E da Tokio al Messico di strada ne hanno masticata, sempre convinti che la via per rinnovarsi e innovarsi sia quella di viaggiare. La nuova vita dei Negrita, iniziata dal sound sudamericano di "L'uomo sogna di volare" senza abbandonare il rock che scorre nelle loro vene, ha insegnato loro che bisogna morire e rinascere ogni giorno, ogni giorno in un posto diverso, per scoprire, assaporare, sentire gusti nuovi, suoni diversi, facce mai viste. E ci riescono in "Desert Yatch Club" con la formula del "Kitchen Groove", una chitarra e pochi strumenti intorno a un tavolo, un pò come Manu Chao ha sempre fatto nei suoi innumerevoli viaggi per il mondo. E la world music sono chitarre in fibrillazione, ritmi in levare, country, suoni dell'America Centrale e testi intimi, che parlano della storia dei Negrita partiti dalla caotica Milano, che è casa ma anche luogo da cui rifuggire. E questo caos interiore si risente in alcuni brani, soprattutto nella seconda parte del disco, dove i ritmi ed i generi si mischiano per abbattere confini. A volte però, arginarli è arduo e si rischia un "tumulto" di suoni e stati d'animo un pò spaesanti. Ma è una leggerezza che vale la pena vivere anche solo una volta.
“Siamo ancora qua”: “Siamo la
crew antiplastica, ritmo per gente scafata che ne mastica, non è uno
stile ma una guerra civile”, i Negrita sono tornati e “pronti
all'assalto” parlano della loro storia, tra chitarre distorte ed un
momento dub con un finale anni '80 più convincente.
“No problem”: “Devo essere
qualcosa più che essere qualcuno e il mio ego sta a digiuno”
chitarre serrate sudamericane per non dimenticare gli ultimi Negrita,
ritmo alla Mano Negra con riff eterei. Anche in questo caso il brano
si prende il suo elettro-spazio dove serpeggia un piano “reggae”...
“Scritto sulla pelle”: il nuovo
singolo ha sonorità texane, di deserti e auto in panne, di caldo e
“segni su di me”: “Come ferite che non nascondo, storie di
andate senza ritorno, storie tatuate di amori e lividi”. Il riff
dell'elettrica ha la giusta melodia per confermarsi leader in questo
lavoro.
“Non torneranno più”: … “le
mille notti in bianco, la gioventù al mio fianco, Roby Baggio e
l'autostop. Non torneranno più i miei vecchi polmoni, la naja tra i
coglioni, scioperi e università”, guardare avanti per Pau e soci
appare proprio impossibile. Ritmica velatamente country anche se a risuonare non è un banjo.
“Voglio stare bene”: acustiche e
schiocco di dita, mood minimal e suadente come la vocalità di Pau:
“Andrò in ongi angolo di cielo o nell'abisso più profondo per
aiutarti a sopportare il peso di questo mondo”. E il Desert Yatch
Club assume un senso, un senso quando entra la sezione ritmica
coinvolgente e “piaciona”. Poi il finale, quando il brano si fa
più cadenzato, si trasforma nel chorus di “Cose che non ho” dei
Subsonica.
“La rivoluzione è avere 20 anni”:
metrica reggae, senza paura: “Nell'universo individuale, l'offerta
è singola e personale e ogni contatto è senza consistenza, tranne
col sesso, con la violenza”. Pezzo molto orecchiabile che
attraversa confini per reinventarsi così come hanno sempre fatto i
Negrita nella loro seconda vita artistica.
“Milano Stanotte”: e non a caso
citiamo quell'album, perchè l'atmosfera qui ricorda “Rotolando
verso Sud” e le chitarre di Manu Chao per i Noir Desire: “E
Milano chiede il conto, sopravvivi se sei pronto o ti inghiotte” e
sembra che tornare a casa sia dolce e amaro per la band, loro chiamano
e “nessuno risponde” al grido di aiuto di una civiltà
che assorbe e che si vorrebbe respingere.
“Ho scelto te”: le strade
californiane sembrano infinite ma più rassicuranti perchè “il
mondo è un barracuda” da “Gesù Cristo e Giuda”, tutto e il
contrario di tutto, come Milano e i deserti dell'America Centrale. Ma
come cantano: “la verità è che una verità sola non c'è.
L'Ambiguità, la perdità di sé...”
“Adios Paranoia”: è il singolo che
ha fatto da apripista al decimo album dei Negrita. Sound country e
chitarre funk, veloci cambi di sonorità e ritmica verso il Messico.
“San Diego di notte sapeva di festa, mille elicotteri sopra la
testa...” poi ancora “ruggine, corvi, cielo stellato...”.
Immagini impresse in parole e musica piuttosto che in foto digitali
che ormai nessuno lascia più sbiadire...
“Talkin'
to you”: variegato, in levare, sospeso, crea un sound che
disorienta, che è un calderone di cose: “Non ti servono gli occhi
se non vuoi vedere e neanche le mani se non vuoi lottare”. Poi si
inserisce anche il rap di Ensi ed assoli distorti ad libitum
sfumando...
“Aspettando
l'Alba”: la voce di Drigo nell'ultimo atto del disco si prende la
scena: “Queste poche righe non cercano una radio, il segnale è
sottile, scrivo per gli amici sperando che ricevano”. A voler
marcare il fatto che si tratta di un album intimo, che parla di come hanno evitato lo scioglimento, fatto più per loro ma regalato ai fan che continuano ad apprezzare
la loro perenne evoluzione. Pezzo spaziale, il più elettronico, che
tocca anche punte di psichedelia a suo modo, dove si inseriscono le
chitarre che giocano come vogliono e si liberano dagli schemi.
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