Francesca Incudine - Tarakè



Per Francesca Incudine muoversi nella canzone popolare e nella world è naturale. Ma lei riesce ad addentrarsi con fermezza ed eleganza e a fare incetta di premi come al Parodi e all'Artista che non c'era. Così è arrivata al suo secondo sforzo discografico dal titolo “Tarakè” (Isola Tobia Label) che ruota intorno al simbolismo del tarassaco, il fiore che soprattutto in primavera disperde i suoi fragilissimi petali nel vento. Francesca li rincorre come una bambina dietro le farfalle, snocciolando storie anche drammatiche, amori tormentati, viaggi interminabili, ricordi... sono poesie, sono “cunti”. E tutto parte dalla Sicilia e torna in Sicilia, non c'è brano che si possa decontestualizzare perchè perderebbe il suo senso più profondo. Isola di bellezze, ricca di storia e di mitologia, di artisti veraci e radicati come Francesca, la Trinacria mostra anche il suo volto “migrante” che è il nostro passato ed il nostro presente ma anche quello di migliaia di popoli che raggiungono le coste siciliane per cercare un futuro, un posto nel mondo. Un disco popular, dove non manca la ballata, non mancano le sonorità caraibiche, i suoni del Sud del mondo, reinventandosi vocalmente, perchè la Incudine non è un'interprete siciliana nell'accezione più tipica della "cantastorie", alla Rosa Balistreri per intenderci, ha una voce, al contrario, molto pulita, giovane, quasi da musical, più avvezza alla leggera, in sostanza. Ma l'accostamento, sotto questo punto di vista, potrebbe essere interessante. Un gran disco, commovente, riflessivo, che vanta un notevole parterre di musicisti: Carmelo Colajanni, Manfredi Tumminello, Raffaele Pullara, Salvo Compagno, Giorgio Rizzo e Valentina Tumminello.

Rosa spinusa”: palm mute con una deliziosa apertura “Dunami paci, chi a notti si fici, dammi li manu e astuta la vuci” ma il mood jazz del clarinetto e delle percussioni lanciano il chorus costellato di chitarre classiche sognanti: “Luci di luna pi mia ancora sona, ciavura 'sta sorti...” l'amore che avviluppa e che fa male come le spine di una rosa... potente finale.

Tarakè”: la title track di acustiche dirompenti ma non ridondanti su cui scivola la voce della nostra, così usignolo più vicina alla musica leggera che all'interpretazione da “cuntastorie”... “Tarakè ventu accarizzi li me sogni e pò li fa vulari”. Gli uomini passano ma le idee restano, ne era fermamente convinto Giovanni Falcone. Un coro world di cornamuse sul finale leggiadro.

Di notti nasciunu i canzuni”: “... ammucciati dintra lu pettu, mentri fora è sonnu chinu, s'arriminanu i pinseri, n'avutro iornu si n'à ghiutu comu un ladru mutu mutu, m'ha lassatu lu sapuri di chiddru c'ava ancora a viniri...” ed arpeggi giocosi si insinuano di notte, mentre “il tempo non vuole passare” e di “giorno mi metto a ballare”, le mille sfaccettature di un'anima. Qui Francesca è molto Emmy Curl.

Quantu stiddi”: la sezione ritmica suadente, latina con le percussioni e orientale nell'approccio chitarristico, piace così nuda con i suoi pochi sonagli a serpeggiare passioni, amori: “Quantu stiddri n'capo li to spaddri, vento 'ca mi sposta li capiddri, quantu stiddri n'capo li to spaddri 'ca m'affunnano comu l'undi di lu mari”, la voce nel chorus si fa molto acuta, andando contro a molte interpreti siciliane che lavorano invece sui bassi.

No name”: Lorenza Denaro recita alcuni passi di “Camicette bianche, oltre l’8 marzo” scritto da Ester Rizzo per la Navarra Editore, in cui si racconta l'incendio alla fabbrica Triangle Waist di New York in cui persero la vita diverse operaie, tra le italiane, molte compaesane di Francesca Incudine, che lavoravano in condizioni disumane. No nomi, solo numeri: “Un vogghiu morire anniruta e bruciata sugnu una stiddra di n'celo caruta”... il mandolino tiene sospesa la drammatica immagine in un 8 marzo che oggi ha assunto un nuovo significato.

Gutierrez”: un'acustica che pizzica le corde mentre echi distanti arricchiscono questo viaggio verso nuove terre: “Naviga, naviga, naviga, ogni viaggio è una meta, ci fa cara la vita. Naviga naviga naviga, a ponente a levante e poi giù dalla rupe dell'amante”... “Bella notte amico” di clarinetti come sirene, drums come onde e l'ascolto fornisce la sensazione di essere accarezzati dall'acqua nonostante il chorus sia alquanto ripetitivo. Tratto dal dialogo tra Cristoforo Colombo e Gutierrez di Giacomo Leopardi, quanti dubbi, quante domande. Un viaggio più attuale che mai, più vicino al Mare Nostrum, prova ne è il brano successivo.

Linzolu di mari”: voce molto effettata: “C'è n'omu n'miezzu mari. Lu scantu c'arrobba lu cori. Mi scantu 'i muriri stasira, nun sacciu cu sugnu e cu era, mi scanto 'i muriri e nun moru, stu cielo mi fa di linzolu”. Tamburi tribali, l'Africa è vicina “li senti li vuci, li senti, nun sunnu preghieri ma sunnu lamenti”, i lamenti di chi ha attraversato deserti, villaggi, nazioni, mari. Partire da una morte certa alla volta di un briciolo di speranza per “sta genti 'nnuccenti”. Gran pezzo.

Dormi figghiu”: “... lu to cori nun canusci u duluri. Dormi nun ti scantari n'ta stanotti senza luci di la luna. Dormi figghiu miu, dormi”. Gli arpeggi sorreggono una ninna nanna tanto dolce quanto dolorosa.

Frore in su nie”: è il brano che Gino Marielli scrisse per i Tazenda e che la nostra dedica ad Andrea Parodi a metà tra il sardo e l'italiano: “Milli e unu die asie, milli testamentos, milli e unu pentimentos...” e “non ci lasceremo mai”. Un testo di una passione folgorante, dove la ritmica è sinuosa come una rumba ma si contiene per dar vita ad una ballata popolare dipinta dalla fisarmonica. Un'altra piccola perla del disco.

“Na bona parola”: uno dei brani più vivaci dell'album, con le chitarre spagnoleggianti ed il “cameo” vocale di Giuseppe Incudine: “Si tu si n'omu libero e di boni sentimenti teniti luntanu di tutti chiddri tinti...” sicuramente un buon consiglio per stare al mondo senza troppe ansie. Qui troppo sottile la voce di Francesca ma comunque efficace per il mood calypso.

“Come fussi picciriddra”: un ukulele e la sei corde creano un sound celtico, medievale. La fortezza per la principessa è la sua casa, il calore di un padre e di una madre “Ora ti cantu sta canzuna comu fussi picciriddra... u megghiu tempu è chiddru c'a veni...” o forse no, chissà. Si va avanti ma i ricordi restano. Sul finale il pezzo cresce musicalmente, si possono ascoltare suoni di cornamuse lontane... ma la principessa torna al suo castello. Sempre.



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