"- Gli italiani si bevono qualsiasi minchiata: e io sono la minchiata giusta al momento giusto"
“Cetto la Qualunque” è un franchise che aveva fatto un buco nell’acqua già al suo secondo episodio, uscito nelle sale 7 anni fa. In questa terza occasione, lo sguardo fiabesco di Giulio Manfredonia non dispiace e nel complesso qualche miglioramento si intravede a livello di dialoghi/messaggi, ma l’inverosimiglianza della vicenda in se, aggiunta alla pochezza della storia, dei suoi snodi narrativi, crediamo scriva il capitolo finale delle avventure cinematografiche, (pubblico permettendo si intende, che comunque sta premiando il film) di Cetto e la sua corte di buffoni. E’ il caso di dirlo, visto che il nostro diventa Re Buffo delle Due Calabrie perché "qualcuno" si ricorda di lui, diventato imprenditore in Germania, ormai lontano dalla politica, e vuole far tornare in auge la monarchia perché è il momento giusto e si serve diciamo così di Cetto e del suo "essere al passo coi tempi" per far breccia nel cuore degli italiani. Critica, satira, che si perdono nell’incapacità di costruire una storia plausibile pur nei chiari rimandi della farsa. Il problema vero è che "Cetto C'è senzadubbiamente" è come se fosse un prologo delle avventure che aspettano Cetto da re mentre rappa con Gue Pequeno in un finale che procede con disincanto nella sua inverosimiglianza. Il film è la prova definitiva che il personaggio di Albanese è decisamente più adatto agli sketch televisivi e che il climax, surreale, grottesco, cinico persino, che si respirava nel primo capitolo, fosse frutto di una convergenza di elementi irripetibile.
"- La democrazia non può garantire più niente... Un re sì!"
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