Hollywood (Netflix)



“Ascoltate bene, lo dirò una sola volta... Regola numero uno: non guardare la cinepresa. Regola numero due: non parlare al regista... anzi, sarebbe buona norma non parlare affatto. Regola numero tre: se volete del cibo in studio, non mangiatelo, non è per voi, ma per gli attori e la troupe. Se vedete del cibo sul set, non mangiatelo... è di scena!”

Ci troviamo nel dopoguerra in quel di Hollywood, dove un gruppo di aspiranti attori, registi e sceneggiatori cercano di farsi strada in quello che diventa proprio da quel periodo e per tutti gli anni a venire il sogno americano: raggiungere la fama, la popolarità, entrando a far parte del magico mondo di “Hollywood”. Da qui il titolo della seconda serie firmata da Ryan Murphy dopo la firma del contratto con Netflix e dopo il deludente “The Politician”. Che dire, sarà probabilmente una delle serie tra le più nominate ai prossimi Emmy, ma per quanto ci riguarda saremo la voce fuori dal coro, per un semplice motivo: la mano di Ryan Murphy è talmente lampante che un po' comincia a dare fastidio. Murphy ha capito come fare a creare serie che catturino l'attenzione della critica ed ormai si rivolge esclusivamente a loro, scordandosi del pubblico che spesso si annoia guardando i suoi show. E' dai tempi di “American Horror Story” che vediamo lo showrunner sempre alle prese con gli stessi attori, ormai suoi chiari pupilli, personaggi stereotipati, prevalentemente gay e discriminazioni di vari tipi, il tutto con un modo di esposizione della sceneggiatura che è sempre identico. La serie è sicuramente tecnicamente interessante, è uno show volutamente patinato ed ancora molto attuale che mette in evidenza il dietro le quinte dello showbiz di allora che è fin troppo simile a quello di oggi, con tutti i sotterfugi ed i mezzucci che praticamente chiunque è disposto a fare per arrivare a quel tanto agognato traguardo e sogno. E' una storia di riscatto, di crescita, una storia alternativa a quella reale, perché ci si chiede cosa sarebbe successo se già sessant'anni fa non ci sarebbero stati disuguaglianza e discriminazione in quell'ambiente e se anche uno sceneggiatore di colore o un attore omosessuale potesse tranquillamente puntare alla fama, senza nascondersi. In “Hollywood” c'è la classica retorica di Murphy ed il suo ancora più classico cercare a tutti i costi una perfezione stilistica che però qui non raggiunge come in altre serie del calibro di “Feud” o di “American Crime Story”. E' come sempre un'operazione mirata a puntare al consenso dei giornalisti, ma risultando a conti fatti chiaramente una serie per pochi, che non può piacere a tutti. Nel cast: David Corenswet, già visto nella prima serie targata Murphy della Netflix, “The Politician”, che qui è protagonista assoluto e interpreta Jack Castello, aspirante attore che si troverà costretto a prostituirsi per sbarcare il lunario; Dylan McDermott (“American Horror Story”), che interpreta il capo di Jack, Ernie West; Jeremy Pope, nel ruolo di Archie Coleman, aspirante sceneggiatore di colore dichiaratamente gay; Darren Criss (“American Crime Story”), nei panni di Raymond Ainsley, aspirante regista per metà filippino e fidanzato con Camille Washington, interpretata da Laura Harrier, attrice; Jake Picking nei panni di Roy Fitzgerald alias Rock Hudson, attore realmente esistito che qui è l'amante di Archie; e troviamo anche Jim “Sheldon Cooper” Parsons, che prova a togliersi di dosso i panni del nerd più famoso del mondo interpretando anche lui un personaggio realmente esistito all'epoca, Herry Wilson, agente alla continua ricerca di talenti che annovera nella sua “famiglia” tra gli altri anche Roy. Niente da dire ovviamente sul cast, ma, come dicevamo, lo showrunner ormai ha i suoi affezionati attori e su questi punta sempre tutto andando sul sicuro. Cast, colonna sonora e tecnicismi a parte però questa miniserie Netflix che cerca di puntare a premi importanti è una serie che risulta “difficile” dal punto di vista narrativo, a tratti molto lenta, con dei dialoghi spesso infiniti, ci sono scene che non finiscono mai, portando inesorabilmente alla noia, per uno show che mette al centro la tecnica, usando principalmente il cervello, dimenticandosi completamente dell'aspetto emotivo, quello più di pancia, che non può e non deve mancare mai.

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