"Ruins
of Memories" è un viaggio folk, country, ma anche pop, che
racconta di Charlie. La cantante da Genova agli States, come Colombo,
ha intrapreso un lungo cammino che qui vuole esternare. Lo fa con un
bel disco, prodotto da Tristan Martinelli al GreenFogStudio con
Mattia Cominotto (mix) e Justin Perkins (master), che esaltano
sicuramente la vera natura dell'artista. Le chitarre irish, la
dolcezza delle melodie, la meticolosa ricerca dei suoni puliti ma
nello stesso tempo anche distorti, la delicatezza che crea questo l'ascolto di questo album è in alcuni casi un banjo e un bel vestito nei ranch
d'America e un po' appoggiare la testa sul finestrino di un treno. La
vita passa e restano ricordi, amori, emozioni vissute e da vivere.
Nonostante si spiazzi da sonorità che richiamano i Beatles piuttosto
che la musica leggera italiana anni '60, è un disco omogeneo e molto
piacevole da ascoltare. L'unica pecca è quell'effetto che permane
sul disco e, principalmente sulla voce molto nasale di Charlie, che ricorda Dolores O'Riordan dei Cranberries, rende il lavoro molto
asettico e non smussa questo “angolo” dell'artista.
“The
Strenght”: acustiche aperte, slide che colorano un folk in cui,
nella seconda parte, vince e convince la “forza” dei violini.
“Superior”,
folk anni '70, la delicatezza della Mitchell, più nei riff e nelle
pause musicali. Una bella melodia folkeggiante che ritmicamente si fa
possente nel finale... over again...
“Rosemary”:
l'intro vagamente “We can work it out”, non tanto nella melodia
ma più nei suoni, un pop dal sapore anni '60 ma con dei fiati che
respirano e con loro il brano. Peccato anche qui come nei precedenti
la nasalità effettata della voce che cozza con la morbidezza delle
sonorità.
“Ash
and Arrow”: il banjo di Marco Ferretti e il violino fiddle di
Antonio Capelli esaltano i due minuti di country non ruffiano,
leggero e ballabile, una “freccia” nell'arco di Charlie.
Ruins
of Memories: chitarre anni '60, il ritmo cadenzato della batteria a cui le
spazzole fanno le fusa si perdono tra sinuosi slide e la giusta
malinconia dei ricordi...
“I'd
be glad”: gli strumenti curiosi mettono su una canzone che nel
ritornello ha il sound della ballad e che poi riesce ad uscire dallo
schema simpaticamente nella strofa. Piacevole anche l'assolo
dell'elettrica che non si discosta comunque dalla melodia... è
subito felicità...
“Leave”:
Charlie/O'Riordan marcia dietro la batteria, con le elettriche
distorte che sono un tappeto, un prato etereo solo quanto basta
perchè in conto c'è sempre la vocalità particolare della nostra...
“Innocent
Sweet”: il pezzo più pop, dove si risente di più un sound
all'italiana, in stile “In ginocchio da te” o giù di lì ma nel
complesso del disco non dispiace affatto anzi, è molto trasognante,
innocente come un amore giovane...
“Bed
time”: arpeggi sonnolenti di una dolce ninna nanna di circa due
minuti...
“Cigarette”:
i riff tornano all'irish, per un testo che in maniera leggera fa
riflettere, racconta di quanto una sigaretta possa tenere in ostaggio
la vita di un uomo. E questo folk che si innamora dei suoi fiati fa
muovere i fianchi.
“The
Road”: the long and winding road... le chitarre e il manto di suoni
elettronici disegnano un percorso post-apocalittico, citando il
romando di Cormac McCarthy. Qui la vocalità di Charlie potrebbe
essere più centrata, anche per la tematica in linea con il sound...
“She”
è la ghost
track. Rispetto ai precedenti brani, Lei, Charlie, mette in risalto i
vocalizzi accompagnati dagli arpeggi delle acustiche. Poco altro...
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