Marco Cambri - Særa i euggi


I ricordi sono sempre un pò temuti. Perchè fanno riemergere un passato che non tornerà, che fa parte di quel lumino dentro al cuore, che ci tiene vivi nel vortice di una società frenetica ed arrogante. Avrà pensato a tutto questo Marco Cambri dando vita a "Særa i euggi" (OrangeHomeRecords). L'album è a tratti vivace, coraggioso, ma spesso malinconico fino alla drammaticità, toccando punte di pura poesia... chiamiamo le cose come sono: poesia. Un elegante "iato" divide la "creazione" in tanti sentimenti, ora di stordimento, ora di amarezza, vuoi di inquietudine o di tormento dell'anima. Cambri si aggira nel suo passato, "chiude gli occhi" e scava a fondo, ricolloca paesaggi e persone al loro posto. 
Lui è ancora lì, nel suo entroterra e guarda fuori dal finestrino di un treno in corsa il suo Paese, che sta cambiando volto. Il disco però, trova chi lo comprende: un insieme di musici che cuciono un abito ad ogni testo, affinché Cambri sia a suo agio, ritrovando sempre, come Pollicino, la via di casa. Loro sono: Marco Cravero (che ha arrangiato il tutto), il produttore Raffaele Abbate, Fabrizio Padoan, Simona Briozzo, Marco Fadda, Marika Pellegrini, Sirio Restani, Francesco Olivieri, Filippo Gambetta, Gianka Gilardi, Roberto Izzo, Pino Parello, Dino Cerruti.

"Coverte pesanti": una nenia medievale racconta una storia temporalmente venuta da lontano, eppure parte della nostra storia. Di quando nessuno doveva sapere cosa accadeva tra due innamorati sotto pesanti coperte, "Tutti o saveivan che inte quella stansia lê o gh'aiva misso a semensa inta pansa/tutti sapevano che in quella stanza, lui le aveva messo il seme nella pancia" e la ballata danza con l'organetto e le percussioni sino al finale dolce-amaro.

"Ægoa do bronzin": una rumba ci porta al centro di una balera, al centro di "questo mondo strano e scemo" dove l'acqua purifica l'anima, il male, la stessa "Ægoa" che fa paura con la sua forza prepotente. Scritta molto prima degli ultimi eventi che hanno "messo in croce" la Liguria, la canzone assume un significato non solo intimo ma profondo, doloroso, un sentimento comune lenito solo dall'organetto appassionato e dalla carezza degli arpeggi dell'acustica. Particolare la scelta di inserire il bridge alla fine del brano come a voler dare un significato di speranza alle parole forti, volitive, di Cambri: "Con sto vento cu se infia in ta cannâ dell’uëgia u gïa e u regïa , u gïa e u regïa, oua u n’asciuga e u ne fa moî/Con questo vento che si infila nelle orecchie e gira e rigira, e gira e rigira, ora ci asciuga e ci fa morire".

"Che rîe!": il travolgente sound manouche ed i violini curiosi si scontrano con una nota diceria popolare: "Attenti agli zingari che ti portano via!" e Cambri se la ride sotto i baffi, con un coretto d'antan che gli fa il verso, a prendere in giro certi retaggi. E il nostro ha un bel rimprovero dantesco da rivolgere ai suoi compaesani: "Ay zeneyxi, zeneyxi, ommi diversci d'ogni costumme e pin d'ogni magagna, perche' da o mundo, no sey voi despersci?/Ahy genovesi, uomini diversi, d'ogne costume e pien d'ogne magagna, perche non siete voi del mondo persi?". Un gran pezzo da ascoltare col sorriso e una buona dose di (auto)ironia.

"Battua": l'intro intenso e tetro delle percussioni di Fadda e Pellegrini, la pulizia del suono e gli accordi liberi dell'acustica proiettano Cambri in un bosco. Dove il cinghiale fugge e tutti lo rincorrono, lo aspettano al varco: "In ti euggi a coae e a puia d’attrovaselo davanti, gh’emmo o diao c’o n’ammia/Negli occhi la voglia e la paura di trovarselo di fronte, abbiamo il diavolo che ci guarda" e l'animale è metafora più odierna che mai dell'uomo braccato, minacciato, cacciato da un branco di lupi che hanno l'aspetto di pecore. L'assolo del banjo rende il finale epico, in un crescendo di suoni e odori, di fucili e sangue, di selvaggina e rugiada.

"Ma mi gh’ò lê": la delicatezza delle spazzole, il contrabbasso sommesso e la 6 corde "che fa il solletico" cambia registro, per sentirsi a casa, per cercare protezione nelle braccia della propria donna attesa sulla soglia, il palpitante indugio di sentire una tempesta di "acqua e vento" che "urlano, gridano, fanno l'amore" e l'ansia di una voce rotta e la voglia di sentirla arrivare. E i liguri lo sanno cosa si prova, conoscono bene questo sentimento sospeso: "Sento a tæra e i erboi deruâ, l'ægoa sbattise a çercâ o mâ, fase röso fra sta razza ingorda, da l'euggiu òrbo e da l'oegia sorda/Sento la terra e gli alberi franare, l'acqua sbattersi a cercare il mare, farsi largo fra questa razza ingorda, da l'occhio orbo e l'orecchio sordo".

"Særa i euggi": "Aria sudamericana" in quel di Zena, che entra da una "finestra spalancata" con il bandoneon che sfiora l'erotico e "hay hay una milonga cerca de aquì?" per perdersi in un ballo stretto, per "chiudere gli occhi" e lasciarsi guidare dal pianoforte virile di Fabrizio Padoan, con l'uomo che "marca" la sua donna: "Pòsse questa pasegiata d'umida pascion, deslengoase in cicolata e in quello che gh’é de bon.../Possa questa passeggiata d'umida passione, sciogliersi in cioccolato e in quello che c'è di buono..."

"Canto": "... per non sentirmi stanco" e la voce di Cambri si affanna a cercar parole, ragioni, un vino buono. "Mesciando e remesciando" fino a bramare il fondo di un bicchiere, dove non troverà mai una risposta a tante domande così come non la troverà su volti arresi. Ma l'assolo dell'acustica sì che pone rimedio a questa sete: "E scarrego fondi de caffè, bratta neigra do gran dô che u me gonfia e gambe e u chêu/E scarico fondi di caffè, fango nero del gran dolore che mi gonfia le gambe e il cuore"...

"A bagascia a dûa": è un detto ligure per dire "intanto le cose vanno sempre allo stesso modo" una sorta di presa di coscienza dopo il brano precedente. L'organetto nervoso e una tenace sezione ritmica si sposa con la teatralità del cantautore. Le chitarre di Cravero hanno spinte funk e Cambri si ridesta, mette da parte i ricordi, i sentimentalismi, e si accorge che vive in un mondo di contraddizioni, di futilità, "un mundo al revés" cantava Paco Ibañez. Ma fermo, "respira profondo" e afferma: "...che o sangoe o l'adrisse a cresta.../ ...che il sangue raddrizzi la cresta".

"Passo": e se la vita risponde con le bruttezze, cerchiamo il senso del bello, come fugaci esteti. Il violino pungente di Roberto Izzo accarezza Cambri che canta precario ed emozionato la mancanza della legna accatastata, di un piatto scheggiato, della sua casa. Nella seconda parte l'uomo si trasforma in bestia, avida e scorbutica, che procede accompagnata dalle percussioni tribali: "In fondo a questa rappa, l’aegoa a piggia a masche a ciappa, l’aegoa scì che le a sa donde anna!/In fondo a questa ruga, l’acqua prende a schiaffi la pietra, l’acqua sì che sa dove andare!"

"Despëtaddo": un "dispettoso" calypso valorizza una melodia popular ricorrente, con la batteria che fa quello che vuole e un sound tutto da ballare tra i canneti della campagna, in un tempo fermo in quell'istante, a dare da mangiare alle galline, con le tasche piene di pietre, mentre la mamma rincorre un piccolo birbante Cambri che si divertiva a "spaccare le lampadine". Ma ancora una volta è la sua poetica ad emergere potentemente: "Son sccioio tramêzo a-e canne, donde a raena a treuva o sciuto, donde a ciaeo in te cammie o s'aççendea d'o sô ciù fito/Sono nato in mezzo al canneto, dove la rana trova l'asciutto, dove la luce nelle camere si accendeva prima del sole..."
"A U Gusto": se i ricordi hanno un sapore, sicuramente è quello nostalgico di questo brano, omaggio al vicino di casa Augusto. E il violino lancinante lo sa, ne riconosce la sapidità delle lacrime che vorrebbero trattenersi e che invece prendono la via del solco rugoso: "Mîa! mi te véuggio dî che in zûe, dónde o dénte fìnto o rîe, tànti çèrcan quéllo che ti gh’avéivi tîe!/ Senti! ti voglio dire che in città, dove i denti finti ridono, tanti cercano quello che avevi te!"
"Pasòu e rive": l'album si chiude con un'altra storia, altre immagini. Siamo a Cabella Ligure, in provincia di Alessandria, dove Marco trascorreva da bambino la villeggiatura con la famiglia. Il pianoforte rievoca reminiscenze, cicatrici, primi baci, le tracce della corriera guidata da Fiorindo. Ed è fascino puro, bellezza in poesia, che scende ancora una volta come acqua che sana lo spirito e che adesso fa meno paura: "Se ògni tanto arîo l’é perchè vegno a çercâ questa ciassa, queste facce, questo mòddo de parlâ ch’o m’é arestòu inte oegie da quande ea fioetto.../Se ogni tanto arrivo è perché vengo a cercare questa piazza, queste facce, questo modo di parlare che mi è rimasto nelle orecchie sin da quando ero bambino..."





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