“Saudagorìa”,
della cantautrice
palermitana Sara Romano, è un lavoro prodotto da Marco Corrao
questa volta con il preziosissimo contributo artistico del cantautore
Michele Gazich. Un album maturo, che affronta diverse tematiche e che
lo si può guardare sotto diversi punti di vista. Tutto il lavoro è
molto malinconico, raggiungendo picchi di eterea intimità. Sara con
la sua lingua, il siciliano, si perde in storie figlie di altri
popoli, storie per l'appunto, che partono da lontano e che oggi ci
appartengono, che fanno parte della nostra cultura. Una cultura
spesso avvilita, maltrattata, fatta di retaggi che ci portiamo dietro
come macigni. E Sara riesce a cantarli sì con velata tristezza, ma
anche con tanta consapevolezza. Il tour americano che ha compiuto
anni fa e l'apporto di Gazich donano a “Saudagorìa” quella
leggerezza folk di cui l'album – a volte indebolito dall'uso
smodato di chitarra, viola e violino - aveva bisogno.
“Nella neve” si apre
con le corde di Gazich e le circolari chitarre di Marco Corrao: “Un
figlio nella neve mi hai chiesto, non lo vedi che c'è il sole, non
ci sarà un altro posto...” e la velata malinconia di queste
immagini contrastanti, come gli amori giudicati, si porta via un
“peso enorme” corale nel finale con Valeria Graziani ma
che non cambia sonorità. I violini alterano suadentemente le note
della title track “Saudagoria”, in cui la malinconia, la
“saudagi” è una figura retorica per catturare l'emozione, il
sentimento legato a un ricordo “che non torna più” e la
Romano canta sognante con Gazich che dà il tocco di grazia:
“... mi sveglio e mi accorgo di essere senza te, mi vergogno e
ripenso ai tuoi giorni di argilla discreta”... I
palm mute danno il benvenuto a “La Strega” e i
violini curiosi lacerano benevolmente mentre Sara “voleva
soltanto giocare con la luna”... come Margarita di Scicli e
come tutte "le donne delle notti di luna" del drammaturgo siciliano Claudio Forti. “La genti” trova
il suo posto tra i volti del Sud, di uno strato arcaico che ancora
resiste: “Tu unnu sai ma iddu rici chi palla cu lu sirpenti...”
e la nostra “cunta” con la mano “a coppo”,
quelle che si usano per parlare alle orecchie delle persone, quelle
del passaparola. Ampio intro di arpeggi di chitarre e violini che si
guardano negli occhi empaticamente.
“La Strega” e “La
genti” porta a “Cause”, a “chianti di stenti”,
“morti e tradimenti” con lo stesso mood minimal di corde
pizzicate e arpeggiate dei brani precedenti. Poi Gazich spinge verso
la seconda parte e lacera come le ferite fisiche e psicologiche
perchè “spara la vucca”... e mesi e mesi a farsi male
prima di trovare, chi ha la fortuna di trovarla, la salvezza
dell'anima. In questo senso anche “Piccola”: “oggi ti guardo
nascosta dietro un battito troppo forte da sopportare” e le
corde pizzicate e circolari, troppo minimal nella voce, a cui mancano
delle incursioni più elettriche. Sara parla a cuore aperto con
l'altra persona, che la vede ancora come “una bimba”. Ma
quella bimba è ormai cresciuta.
“D.A.N.A.” è un
altro pezzo in dialetto siciliano con gli archetti fendenti –
rievocando i Quintorigo di “In Cattività” - su cui si
adagia la sola voce della cantautrice: “Arrusti lu cori passannu
chianu” e la vocalità si fa sempre più eterea, come riemersa
da chissà quale favola antica, di draghi e principesse ribelli. Ed è
qui che entrano anche le chitarre di Corrao, a voler ammorbidire
l'inquietudine, ad abbracciare con la successiva “Sotto i 35
gradi”: “Ed io galleggio sull'astinenza dell'acqua, io
sospendo il giudizio e il calore... ed io dondolo su un pezzo di
terra”... chissà quale terra, chissà dove, in quale posto nel
mondo. E “il freddo glaciale” pian piano si fa sentire nel
testo ma sicuramente non negli arpeggi. Sullo stesso filo dei ricordi
corre “Malatempora”: “Tri fimmini cantanu virtù e unuri,
Armani Nicandra e Peristea d'amuri...”. Sara Romano dà voce a
una madre che perde un figlio mosso da valori, falsi valori... quello
che resta sono le spine lasciate lì da Corrao che batte sulle corde
basse. Indubbiamente il brano più
'psichedelico' per certi aspetti.
Per chiudere, “Unni
unni”, ovvero “dov'è”, che
riprende una ballata gaelica con il coro caldo del cantautore
Mimì Sterrantino. Quando Sara spinge ricorda Antonella
Ruggiero, però meno lirica e più sporca. Un bel pezzo dal sapore
folk che è un degno epilogo.
Commenti
Posta un commento