Don Jon di Joseph Gordon-Levitt



"Nella merda che guardo io nessuno finge - Certo che fingono!!!"

Da una prigione d’orata all’altra, da imposizioni “indotte” ad altre, da una felicità apparente a un’altra e soprattutto da una dipendenza all’altra, Joseph Gordon Levitt passa con stile narrativo e filmico per finire col rifiutare il sistema, rappresentato dal più classico degli happy end, citato anche in un film "finto" al cinema con Channing Tatum e Anne Hathaway nella prima mezz’ora. L’istituzione, sublimata dalla famiglia, in Don Jon, viene attaccata in ogni suo punto e ben resa, attraverso dettagli e inquadrature rappresentative, personaggi di contorno interessanti(gli stereotipi dei genitori, lui violento, lei oca giuliva, la sorella che per tutta la durata del film è intenta a guardare il telefonino, gli amici che sembrano uscire dalla più banale delle commedie americane) e regia mirata, fanno si che emerga al meglio il messaggio che il nostro alla sua prima prova dietro la mdp vuole lanciare.
Figli del consumismo, della pubblicità, nelle nostre quattro mura, risiede il segreto per vivere, da dipendenti della idea della felicità che ci hanno imposto subdolamente, il meccanismo deve necessariamente incepparsi o meglio "perdersi", affinchè si riesca a ragionare. E Jon è quasi un figlio "prodotto" di/dal marketing ben riuscito, il risultato di campagne accurate. E’figlio della tv, dei suoi valori, la sua vita è scandita da un lavoro “comune” e “invisibile” del quale odiamo solo i suoi improperi dentro l’auto a qualche altro automobilista quando vi ci si reca, dalle confessioni, dalla palestra “dove fa penitenza”, dagli amici, dalla cura della casa e del corpo, dalle ragazze di una notte e tanto tanto porno, simbolo della realtà/finzione della società rappresentata: "gli danno anche i premi ai film - Se è per questo li danno anche ai porno".
Sulla ripetizione a tratti ossessiva del meccanismo sta il sottile confine tra ciò che è davvero reale e quello che è finzione, dove si snoda la catarsi del protagonista, che uscirà per scottarsi dalla sua gabbia ricca di stereotipi televisivi nell’incarnazione reale fisica dei suoi desideri indotti, "Scarlett Joahansonn", dalla quale verrà facilmente risucchiato, quasi per abitudine a farsi comandare da impulsi che niente hanno a che fare con la logica, pur anche dei sentimenti, prima di un finale che non era facile rendere con il giusto distacco empatico, senza fare il verso al sistema che si vuole denunciare, centrata l'interpretazione a tal proposito di Julianne Moore.
Un film dunque assolutamente riuscito, dove tutto è funzionale alla messa in scena, dove il distacco da una forma consolidata è accentuato con dovizia di particolari dai fatti narrati, dialoghi compresi. Tutto è al suo posto, tutto è parte integrante di un messaggio più grande che travalica la narrazione e i suoi toni.


"L’amore che intendo io è come quando fai l’amore e ti dimentichi di tutte le stronzate"

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